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17 marzo 2017 | indiebox |
Dopo aver ascoltato “Ossa rotte, occhi rossi”, il primo full-lenght degli Endrigo, si ha una strana sensazione. Quella di aver ben poco da aggiungere. E questo non perché ci troviamo di fronte a un capolavoro (cosa che peraltro non ha la pretesa di essere). Piuttosto, constatiamo quanto questo degli Endrigo sia, nel bene e nel male, un disco che non lascia tanto spazio all’immaginazione. Nel senso che ci mostra, nelle liriche, un linguaggio crudo, diretto, a bassissima intensità metaforica. Insomma, dice quello che deve dire come va detto, punto e basta. Quando vuole dire “cazzo” dice “cazzo”, non dice “serbatoio dell’ENI”. E quando vuol dire “merda” dice “merda”, non dice “la madre di tutti i fiori”. Ma attenzione, un’istantanea della realtà, per quanto scaciata, sarà sempre più vicina a un’idea della realtà, che non alla realtà stessa. Però ecco, è un disco che parla chiaro, senza troppi girotondi poetici.
Undici tracce fra alti e bassi (più i primi che i secondi). Undici tracce che sono un riassunto della strada (non breve, ma decennale) che la band ha percorso fin qua. Un debutto, quindi, che è lecito definire un greatest hits mancato, o meglio un’antologia di brani finora sconosciuti. Prima del sudato traguardo: tanti concerti, tanto furgone, tanta vita e altrettanti casini. Di nuovo, “Ossa rotte, occhi rossi”. Da ripetere come un mantra. Perché questo è soprattutto un album stracolmo di anthems. O se preferite, di inni da pronto soccorso generazionale (da Salvalavita Beghelli a Salvalavita Ritornelli, mettiamola così). Punk-rock? Pop-punk? Emo-core? Power-Emo? Power-emo-pop-punk-rock? Un po’ di tutto questo (per fortuna abbiamo schivato l’elettro-indie-hardcore). Va detto però che gli Endrigo, e qui il margine di dubbio è assai ridotto, tutto sembrano fuorché dei posers.
Poser, ovvero: colui che si atteggia, che so, a fare il Rozz Williams della situazione, quando invece farebbe meglio a visitare il repertorio di Lando Fiorini. Chiusa parentesi.
“Straight outta Villaggio Sereno (BS)” segna l’incipit, ma anche il gol del vantaggio al primo minuto. E chi ama lo spettacolo stia tranquillo, perché verranno altre reti, anche se non belle come questa. L’apripista, il singolo di lancio, un pezzo che sa di ritorno a casa dopo una stagione all’inferno (e di bilancio esistenziale/generazionale, che ormai è un tassativo). Spicca, fin dall’inizio, la caratteristica che più di ogni altra differenzia gli Endrigo dai vari Pinguini dei Gazebi, o dagli Animali Veloci che inseguono i Ragazzini Lenti (che poi vanno a rifugiarsi nei Gazebi dei Pinguini). Spicca, in soldoni, un’ottima confidenza con la melodia (e chi l’avrebbe mai detto?). Un’attitudine inaspettata, che si traduce in brani dalle strutture snelle e dagli arrangiamenti semplici, ma non per forza semplicistici (vedi il brano “Frankenstein”). In altre parole: a cantare qui si canta.
Alcune formule, è vero, mostrano un po’ la corda (e anche il pick-up). Ma più per esaurimento scorte del suddetto “macro-genere musicale”, che per demerito del gruppo. L’alternanza riff buono-riff cattivo (che è fatta appunto per variare) è oramai statica, prevedibile, e riecheggia l’alternanza poliziotto buono-poliziotto cattivo dei telefilms americani. Ad ogni modo, il rock (per brevità lo chiameremo così) degli Endrigo non è certo (non è ancora) un rock atonale. Le loro sono canzoni che con pochi accorgimenti si possono tranquillamente (per modo di dire) cantare davanti a un falò, sulla spiaggia. E no, non una spiaggia deturpata. Una spiaggia dove magari si piange un po’, ma dove alla fine i ragazzi e le ragazze si baciano (magari sui titoli di coda, fuori campo).
Vince il Premio Weird il brano “Frankenstein”, che infatti è un bizzarro esperimento di laboratorio. Roba da “Reanimator”. Un ibrido chirurgico, supponiamo, fra “Generale” di Francesco De Gregori e le dinamiche di pieno/vuoto in stile “Brain Stew” dei Green Day. Invece il Premio Metafora (abbiamo detto che son poche, non del tutto assenti) lo vince il brano “Supertele”, dove si parla di cani che abbaiano ignorati dai passanti, e che credono ancora di saper mordere (la vita). “Controcrederci” è un manifesto punk animato dalla forza dei ricordi, nella fattispecie l’adolescenza e il suo romanzo di (de)formazione (gli amici con cui amare e condividere i dischi più belli e più assurdi, una sorta di controcultura privata). In breve, canzoni realiste per squarciarsi la gola. Per trasformare la nostra realtà in un’idea, e non ancora, purtroppo, per mostrarci la realtà “di un’altra” idea.
Pertanto aspettiamo nuove aperture, nuove fecondità (Straight Outta Condom, scusate il vizio dei calembour).
Tematicamente, il disco ruota quasi tutto intorno alla difficoltà di tenere in vita un sogno (che poi è il sogno dello stare insieme, del costruire qualcosa insieme) in un mondo spietato e ingrigito. Musicalmente, forse, ci troviamo di fronte a dei Punkreas, o Shandon, finalmente liberati dalle catene dello ska-reggae. E li avremmo visti bene al Warped Tour di qualche tempo fa, o ancora prima, come gruppo spalla dei The Replacements magari. Perché sì, questa band come poche altre in Italia (forse nessuna oggi) sa coniugare il punk con la melodia senza fare troppi disastri. Del resto, riprendono il logo dei Black Flag e si chiamano come uno dei nostri più grandi cantautori. Qualcosa vorrà pur dire.
Poscritto: Ironie a parte (vedi sopra), onore ai FASK per aver prestato, come si legge nelle note della band, la propria strumentazione agli Endrigo nel corso delle registrazioni. Quando si dice un bel gesto. Oppure, già adesso, un amichevole passaggio di testimone?