Slowdive – Slowdive

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5 maggio 2017 Dead oceans slowdiveofficial

Si è parlato di miracolo. E in effetti la reunion degli Slowdive, prima dal vivo e ora su disco, ha del miracoloso. Se non altro perché tutti (gli amanti rimasti orfani dopo lo scioglimento) ci speravano ma nessuno ci credeva. O forse ci credevano ma nessuno davvero ci sperava. Oppure, semplicemente, ritenevano la storia archiviata. Consegnata per sempre (più o meno per sempre) alla gloria dei posteri, di ieri e di domani. Per tre ottimi motivi. Numero uno: “Just for a day” (l’esordio del 1991, dolcezza e rumore in mistura perfetta). Numero due: “Souvlaki” (sequel del 1993, il rumore inizia a scemare, d’altronde in conclusione troviamo la splendida “Dagger”). Numero tre: la bellezza di Rachel Goswell. Una donna talmente angelica, nella voce negli occhi nei lineamenti, che davvero stenti a immaginartela alle prese con le normali funzioni fisiologiche di noi comuni mortali. Sul serio, provateci, è tutto inutile.

Poi certo, ci sarebbe anche “Pygmalion”, lo svuotamento prima dello scioglimento (e già la line-up era rimasta decimata). Disco di scarnificazione, alla ricerca della forma ideale, con più di un capolavoro in scaletta. Ancora una volta un album diverso. Non il loro migliore, e a dirla tutta il rischio-sbadiglio è piuttosto alto. Ma sono sbadigli di grande bellezza, quindi oro colato coi tempi che corrono. E veniamo dunque a quest’ultimo “Slowdive”, il tardivo self-titled. Otto canzoni per passare in rassegna il passato, alla ricerca di un futuro. O magari per mettere la parola fine una volta per tutte (se fosse così, sarebbe ancor più intrigante la scelta del titolo). Otto composizioni che mettono sul piatto tutto il menù di Casa Slowdive. Con qualche aggiunta gustosa (le insolite accelerazioni di “Star Roving”, un maggior impiego delle tastiere). Tutto fila liscio, anche troppo. Tutto fila liscio come il marmo di una lapide.

L’iniziale “Slomo”, in un certo senso, dovrebbe rassicurarci. Tutto è tornato al proprio posto, dalle voci di Neil Halstead e dell’angelica Rachel fino alle chitarre. Ma è come se ci fosse un abisso in più, dato forse dall’età (sono passati più di vent’anni da quando i nostri erano ventenni). E se prima la tristezza di brani come “Dagger” somigliava a un dolcissimo e disperato sussurro nella notte, ora c’è dell’altro. Fa più freddo, e fa anche più buio in questo nuovo album degli Slowdive, che stando alla copertina potremmo anche definirlo il loro Black Album. Ad ascolto terminato, prevale lo scoramento. Mentre prima (nei vecchi dischi) le malinconiche trame strumentali e i nebbioni dello shoegaze si aprivano dei varchi luminosi, quasi uno slancio verso il mistero delle cose (dell’amore), adesso il senso (così a noi sembra) è un altro.

Citando il poeta, potremmo dire che “un sole goffo pende all’orizzonte/come un lume di scena”. Ma il caso è davvero strano. Stavolta più di ogni altra. Perché l’album in questione è oggettivamente bello, ci viene da pensare. Anzi, forse gli Slowdive non potevano permettersi un ritorno migliore di questo. Eppure il recupero del sound, di certi marchi di fabbrica, non è bastato a fare del disco il miracolo di cui tutti parlano. Un disco bello, ma come raggelato, non pienamente dischiuso, forse per scelta, forse per necessità. Una raccolta di buone (se non ottime) idee musicali, che faticano però a toccare il cuore del sentimento.

Uno scrigno di melodie che deliziano senza incantare, che attirano senza catturare. E questo nonostante la prova, formalmente compiuta, di Neil & Rachel. Due amanti la cui eco giunge da immensità opposte, dal meno infinito e dal più infinito. Per trovarsi ogni volta in un solo attimo. E di luce, ad ogni modo, ce n’è. Nella bellissima “Sugar for the pill”, ad esempio. Come nella volatile, impalpabile melodia di “Don’t know why”. Oppure, ancora, nell’attacco celestiale di “Everyone knows” (una “Star Roving” unita al finale di “Golden Hair”) Ma la magia di un tempo si è rigenerata solo in parte. Spiace dirlo, ma questo disco, più che di una rinascita, ci suggerisce l’immagine di un feto intento a scrivere il proprio testamento prima di sbocciare. Mirabile per la tenuta stilistica esibita (non era affatto scontato), meno per l’effettiva forza della scrittura.

Ne è prova la buona “No longer making time”, che nel ritornello fa palesemente il verso alla celebre “When the sun hits”. e andrebbe anche bene, se non finisse poi con l’arenarsi in quello strano limbo a metà fra l’autocitazione riuscita e l’occasione mancata. Bellezza insperata, per i tempi che corrono, ma nessuna, vera, nuova sensazione. Il tuffo è stato meno lento del solito, e “Slowdive” infondo, forse, è solo questo: una dolce morte per annegamento.

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Album:
Slowdive - Slowdive
Voto:
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