Fleet Foxes – Crack-Up

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I Fleet Foxes e l’innata eleganza. Pochi fronzoli, pochi scoop negli ultimi sei anni. C’è chi ha trovato fortuna al di fuori della band, come Joshua Michael Tillman, aka Father John Misty e chi è andato all’università, come Robin Pecknold, che in un’intervista dice: «ci sono cose importanti oltre ad essere un bravo cantante o musicista. Essere stabile, non troppo insicuro. Essere una persona migliore».

Nel mondo frenetico nel quale viviamo, sempre alla ricerca di un impegno, senza fermarsi mai, dove la gente si sveglia nel cuore della notte per controllare Facebook, le Volpi si siedono. L’album d’esordio ha sovreccitato molta della stampa internazionale, mentre il seguito li ha definiti, poi sei anni di silenzio.

È così che si diventa “intoccabili”. Dopo sei anni, un processo di interiorizzazione e una cura quasi maniacale dei dettagli, chi avrà mai il coraggio di scrivere che “beh, potevano far meglio”. Fortunatamente, almeno in questo caso, non c’è bisogno di inventarsi lodi varie per poi, dopo un mese, dimenticarsi il nome dell’album.

Crack – Up (16 giugno 2017, Nonesuch Records) magari non passerà alla storia, ma segna il ritorno in grande stile di una band che ha significato molto per la produzione indie-folk moderna; in compagnia di Mumford & Sons, Beach House e Animal Collective.

L’album è l’apoteosi della diversità in mezzo a produzioni dense di synth, autotune e pitch modulation. Il singolo di apertura, “Third of May / Ōdaigahara” sembrerebbe un harakiri, tanto per rimanere in Giappone: otto minuti abbondanti di componimento in più movimenti. Alla prima parte in forma canzone ne segue una seconda psichedelica e, a chiudere, una terza costituita da un susseguirsi di sperimentazioni sonore strumentali, con gli archi a fare da protagonisti.

Coraggio non manca alla band di Seattle, ma l’aggettivo per meglio descrivere questo nuovo lavoro è “originale”. Originale perché riesce a slegarsi da tutto ciò che c’è intorno sviluppando un’identità precisa.
La visione d’insieme dell’album lega imprescindibilmente i brani che, presi singolarmente, perderebbero la propria ragion d’essere. I leitmotiv diventano filo conduttore dell’album, come quello dei cori in “I Am All That I Need / Arroyo Seco / Thumbprint Scar” che si arricchisce di uno strumento ogni volta che viene ripresentato: prima il basso, poi suonato solo dagli archi. Dopo il bridge ritorna d’impatto con gli archi diventando, insieme ai momenti di vuoto dove trova spazio la voce sussurrata e il giro di basso, il vero cuore pulsante del brano. In “Naiads, Cassadies” lo spezzato di pianoforte si lega al senso di alienazione dei momenti di silenzio del brano precedente.

Il titolo dell’album, traducibile in crollo, esaurimento nervoso, vuole rappresentare il momento di passaggio verso l’età adulta, periodo di alienazione per eccellenza, ostentando i forti sbalzi d’umore, i cambiamenti repentini di personalità attraverso ogni brano di Crack – Up.

Negli ultimi sei anni la band ha voluto fortificare le proprie radici, guardarsi come uomini prima che musicisti, prendendosi un lasso di tempo indefinito per tornare più motivati e con una rinata empatia. Il classico perdersi per poi ritrovarsi di salingeriana memoria. Il carattere dei Fleet Foxes ne è uscito più forte, soprattutto nella figura di Robin Pecknold che sconfitti i suoi demoni è tornato a raccoglierne i resti nelle canzoni.

Non si è persa la tendenza a concentrarsi su tematiche aspre, come il difficile rapporto tra la polizia e la comunità afroamericana – specie nel brano “Cassius” (Clay). Musicalmente l’album regala passaggi di notevole fattura sia chitarristicamente, con armonici e riff ostentati per tutta la durata della canzone (“Mearcstapa”), sia a livello di creatività: pensiamo ad “On Another Ocean (January – June)” che alterna vocalizzi di tradizione mediorientale, passaggi di piano dell’estremo oriente a risoluzioni occidentali. Il brano, vira poi su una forma-canzone, come se la prima parte fosse un alap indiano – l’alap è l’introduzione al raga, componimento tipico indiano.

A brani più articolati si accostano altri dal sapore più familiare, come “Fool’s Errand” o “Kept Woman”, più vicini al folk acustico americano tradizionale: che vede le voci doppiarsi e intrecciarsi in melodie cupe.

Ad ogni ascolto Crack – Up si arricchisce di elementi nuovi. Emergono in primo piano ogni volta strumenti e passaggi differenti, creando una musica in costante mutamento, a seconda del punto di vista che si vuole adottare: meditativa, estatica, razionale o immaginaria. Lasciandosi trasportare dal flusso sonoro dei Fleet Foxes si rimane intrappolati in un viaggio psichedelico contornato dall’afa estiva, che regala visioni mistiche e «il suono di un uomo che contempla una sconfitta che si è messo alle spalle».

«Light ended the night, but the song remained»

Data:
Album:
Fleet Foxes - Crack-Up
Voto:
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About Massimiliano Barulli

Studente di Etnomusicologia @ La Sapienza, Roma. Mi interesso di tutto ciò che ruota intorno alla Musica e di tutto ciò che è Musica. Pop, Rock, Blues, Indie, World Music e contaminazioni.