The Pain of Being Pure at Heart – The Echo of Pleasure

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Giugno – Agosto 2017. Scorrendo la home di Facebook si trovano post che parlano di caldo, dei Thegiornalisti, foto di Gallipoli, dei fenicotteri rosa galleggianti e di tutti gli altri trend che si perdono dopo qualche ora. L’arsura estiva, tuttavia, è stata dalla parte dei numerosi festival nostrani: poca acqua dal cielo e tanta birra dai fusti a terra. Estate ricca di festival, appunto, di tour, di musicisti pronti ad affrontare le distanze con furgoncini mezzi scassati pregando di non essere lasciati a piedi. Chilometri su chilometri tra i miraggi causati dal bollore dell’asfalto e tappe su autogrill sperduti con lo stesso Camogli tra le mani.

Alle band italiane non spaventa niente: locali improvvisati, parchi sperduti, pioggia, grandine, nord-sud-ovest-est con lo stesso tempo che gli autisti di Flixbus impiegano per la sosta-bagno. Gli americani no. I newyorkesi men che meno. Loro si muovono con criterio, con le condizioni climatiche-ambientali da non troppo freddo, ma neanche troppo caldo. I turisti fanno tappa in Italia in pieno agosto, ma sempre accompagnati dall’immancabile aria condizionata fissa a 20 gradi. Le band, invece, quest’anno toccano l’Italia a fine estate per assaporare quel sentimento malinconico che si arrotola nelle viscere tra la fine di agosto e l’inizio di settembre.

Questo sentimento, quel sapore strano da fine estate che si fa vivo dopo ferragosto, quel rimpianto per il cocktail mancato, che tanto c’è tempo, o per quel tramonto che avresti voluto vedere dal bar lungo la spiaggia, quella canzone che non ti sei goduto abbastanza. Non c’è una parola che descriva questa sensazione. Hanno provato a chiamarla August Blues, confrontandola con la tensione e spossatezza della domenica sera. Una sorta di senso di colpa esteso per quanto non si è fatto durante questo periodo dell’anno. La lunga lista dei buoni propositi parte da capodanno, passa per Pasqua per arrivare all’estate; dopodiché approda (quasi) interamente a settembre per poi ritornare al punto di partenza. C’è uno strato di pace al quale si sovrappone uno di insofferenza con lunghi tratti di rassegnazione che ritorna pace, appunto.

Questo sentimento tardo estivo si sposa alla perfezione con le sonorità newyorkesi di due album usciti ad inizio estate, nel giugno 2017: Abysmal Thoughts dei The Drums e Somersault dei Beach Fossils. Seguendo il filo logico di quanto detto sembrerebbe essere una scelta sbagliata, e invece no. Se a giugno rimangono nelle orecchie ad agosto diventano indispensabili. Ci sono quegli album che presi in momenti dell’anno diversi suonano diversi; per me, questi due suonano bene a fine agosto inizio settembre. E proprio in questo periodo le due band toccano l’Italia: i primi il 18 settembre e i secondi sono passati per quattro tappe, dal 23 agosto al 13 settembre.

Passo indietro: oltre che chiudere la stagione, a fine inverno, il prolifico ambiente newyorkese ci aveva regalato altri due modi di approcciarsi all’estate, questa volta più diretti ed eclettici: The Tourist dei Clap Your Hands Say Yeah e l’EP 3 O’Clock dei Blonde Redhead. Sonorità molto diverse dai primi due citati, ma questa sindrome synth-etica è ormai entrata nel codice genetico di molte band.

The Drums e Beach Fossils possono piacere o non piacere, ma hanno centrato il mood in pieno.
Questo clima dura fino a metà settembre; finisce la stagione dei festival e si apre quella dei club, della musica più danzereccia. Ad aprire le danze sono stati i sopracitati newyorkesi, ma il fulcro centrale diventa l’ultima fatica dei The Pain of Being Pure at Heart, The Echo of Pleasure, uscito il primo settembre per la loro etichetta, la Painbow.

Quaranta minuti divisi in nove canzoni di pura logica Pop, rimaste nel cassetto così tanto a lungo da spingere Kip Berman, leader della band e unico rimasto della formazione originale, a dover ristudiare le parti che lui stesso aveva composto:

«Sento una strana freddezza verso l’uscita di questo disco. Ho registrato queste canzoni un anno e mezzo fa, alcuni pezzi li ho scritti ancora prima, in alcuni casi, quindi davvero c’è un abisso tra il tempo in cui sono nati e ora, momento in cui c’è la loro uscita».

Si tratta di un album segnato fortemente dalla nascita della figlia, anche se successiva alla creazione dei pezzi. Il periodo di transizione dalla creazione ad oggi porta a una considerazione doppia dei brani, da un sentimento di aspettativa a uno di realizzazione appagante. Chissà come si è sentito Kip riascoltando quelle demo; probabilmente lo avrà interpretato come un dialogo con il sé del passato. Paternità ripresa nella copertina, che rappresenta Diana, protettrice delle nascite dei bambini e delle donne, tratta da un fotografo degli anni Quaranta, Erwin Blumenfeld, che a sua volta ha remixato la scultura di Jean-Antoine Houdon.

The Echo of Pleasure non è figlio del 2017, ma di un percorso più lungo, con uno stop importante nel mezzo. È un album che si muove, nato dall’euforia del momento, molto su di giri. Arriva il momento di saltare dopo il tramonto estivo in chiave Beach Fossils. New York brilla e si illumina sulle note di “When I Dance With You” e di “My Only”. Le trame chitarristiche colorate, i synth e i riff in primo piano non devono ingannare: i testi non sono dei più allegri. In “AnymoreKip canta «Anymore, I couldn’t take anymore. I wanted to die with you. I didn’t know the price I’d pay. I lost my way, don’t say it wasn’t true»; il percorso di cui parla ha visto il compimento, probabilmente, con la nascita della figlia. Inoltre, le parole die, death, missing si ripetono in molte occasioni e in più testi. Tutto ciò in contrapposizione a quello che è il tono prettamente sonoro dell’album.

Non è proprio il loro lavoro più interessante, tenendo conto che della formazione originale è rimasto solo il cantante, ma di sicuro è un ottimo modo di passare i tiepidi sabati sera autunnali. Suono ricco, deciso, che strizza l’occhio alle nuove tendenze, ma rimane saldo al calderone indie – l’etichetta è la loro e la produzione molto homemade, forse una delle poche cose che ancora si possono definire indie.

L’elemento, a volte sottovalutato, che accomuna tutte le band citate è la chitarra. Bistrattata ultimamente dalle logiche computerizzate, dall’individualismo crescente dove bastano una persona e un pc per creare musica, la chitarra si ridisegna. Torna ad essere padrona dei riff in un genere nel quale sarebbe sostituibile tranquillamente con un sintetizzatore. Ancora funzionano le accoppiate cassa-basso e chitarra-voce, disegnando armonie che entrano in empatia diretta con l’ascoltatore, trasmettendo un ché di autentico, di reale.

Non per essere nostalgici per forza, ma sentire ancora il fruscio delle dita che scorrono sulle corde della chitarra incastonarsi alla voce, o un basso vero giocare con la batteria fa pensare che ancora c’è qualcuno che combatte un mercato troppo vicino a suonare tutto uguale. New York in questo non delude mai

Data:
Album:
The Pain of Being Pure at Heart - The Echo of Pleasure
Voto:
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About Massimiliano Barulli

Studente di Etnomusicologia @ La Sapienza, Roma. Mi interesso di tutto ciò che ruota intorno alla Musica e di tutto ciò che è Musica. Pop, Rock, Blues, Indie, World Music e contaminazioni.