PREMESSA
Perché Babilonia? La città di una delle sette meraviglie mondiali, i giardini pensili, e dei settanta linguaggi diversi. La Torre di Babele, simbolo della varietà del linguaggio e dell’implicita confusione delle varie direzioni che esso prenderà nei secoli e che attraverserà tutti campi, tra cui anche – e soprattutto – la musica. Babilonia quindi come un centro nevralgico di comunicazione, di crocevia di culture.
Questa rubrica ha lo scopo di salire su quella torre, miticamente altissima, per seguire dall’alto il vento dei linguaggi dispersi ai quattro angoli della terra; verranno quindi presentate quelle etichette o quei movimenti che, al giorno d’oggi, formano questo nuovo linguaggio musicale, un linguaggio per di più confuso e frammentato. Una rubrica che cercherà di fare luce su quali sono i punti di snodo della musica moderna e chi li porta avanti, i suoi linguaggi fondamentali e meno seguiti, quelli più sperimentali o, semplicemente, quelli troppo lontani perché siano recepiti da noi, che in fondo, siamo sempre più “stranieri in terra straniera”.
C’è voluta una dichiarazione di Johnny Greenwood sull’influenza dei Lali Puna a riguardo della lavorazione di Kid A per portare alla ribalta quella che poi sarà definita indietronica. Cercare di inquadrare questo movimento equivale a trovare nella Germania di oggi un punto nevralgico, quasi fondamentale, delle avanguardie nel nuovo millennio. D’altronde, dalla terra che ha dato i natali ai Kratfwerk non ci sarebbe da aspettarsi nulla di differente. E proprio loro saranno uno dei riferimenti di questa musica, che, all’alba del nuovo millennio si presenta al grande pubblico sperimentando piccole deviazioni elettroniche su musica prettamente analogica, il pop. L’indietronica vede misurarsi su un campo che di lì a poco diventerà l’emblema stesso del post duemila: quel pop che altro posto non trova che nella cameretta, ridimensionato quasi a fatto giornaliero e presa di posizione della nuova intimità della musica. Una musica “nuova”, imbastardita con l’altra scuola che di lì a poco sormonterà qualunque approccio musicale: il glitch, vale a dire l’errore, vale a dire un modo ancora più umano di confrontarsi con la musica, seppur gestito da computer. L’artista in questo senso, consacra la definitiva discesa dell’elettronica dall’Olimpo dell’astrazione, un percorso cominciato negli anni 70 e consacrato nel 2001, all’uscita di Scary World Theory, il debutto dei Lali Puna, continuato poi col capolavoro riconosciuto del genere, quel Neon Golden dei Notwist che, ad anni dalla sua uscita continua ancora a far parlare di sé, e approdato alla concretezza matura di Everything Estatics di un Four Tet che, mettendo insieme ogni tassello, diviene la chiave di volta dell’“altro pop” del post duemila.
La Unhip è l’etichetta di Giovanni Gandolfi (dj di Radio Città del Capo, attivo organizzatore di concerti bolognesi del Covo, giornalista e critico musicale) che si affaccia al mondo della musica pubblicando inizialmente solamente singoli (forte ora di due grandi uscite che rispondono al nome di Disco Drive e Settlefish, entrambi recensiti in questa sede), due canzoni per disco, due gruppi differenti. Un’etichetta che tenta in ogni modo di ridefinire lo spazio della musica, ridimensionando anch’esso ad una forma più intima e artigianale, a diretto contatto col pubblico: non solo il formato singolo è programmatico di questa scelta, ma anche ogni copertina di qualunque uscita è una vera e propria opera d’arte, lavoro di fotografi o di gruppi stessi che finisce per relegare gli split ad oggetto da collezione (non essendo ristampabili). C’è tutta una cultura del disco e dell’approccio di una musica più diretta e in qualche modo amichevole, come le intenzioni del progetto, assolutamente anomalo nel panorama dell’industria discografica, teso a promuovere la musica che i primi artisti cominciavano a spedire.. per posta. Intendiamoci, non è la prima etichetta che promuove split del genere, almeno a livello musicale, ma sono le modalità ad essere differenti: niente rapimenti di due giorni di puro delirio anarchico, come vuole la serie di In The Fishtank, niente crossover tra l’immenso ego jazz di Matthew Shipp e i produttori hip hop mondiali, tanto per dire. Il progetto dell’etichetta di Gandolfi promuove sia un modo ancora più libero di proporre musica, da spedire direttamente da casa propria, a discrezione delle amicizie che legano ogni gruppo all’etichetta. E,
quando nel primo split si vedono comparire i nomi di Tarwater e Yuppie Flu, sembra quasi chiudersi un cerchio. Le prime uscite coperte dalla Unhip saranno proprio i grandi nomi dell’indietronica e dell’avanguardia pop/elettronica. Sarà veramente una questione di facilità del progetto (nel caso dei 7” che erano quasi tutti di musica elettronica i gruppi mi davano direttamente i pezzi), ma l’analogia diventa impressionante. Anche quando l’attenzione si sposta ad altre scene, cambiando, di fatto, la forma, ma non assolutamente il concetto e la coerenza; se d’altro pop e di sperimentazione deve trattarsi allora si dia il via ai Pan American, To Rococo Rot, addirittura i Fantomas prestano la loro presenza agli split, facendosi accoppiare con dei distruttivi Melt Banana. E se di cameretta deve pur sempre trattarsi, allora si mantenga il piccolo formato e la durata ridotta dei brani, e l’essere spediti via mail. La direzione dell’etichetta non cambia sostanzialmente, facendo della sperimentazione a tutto campo il nuovo non-luogo d’indagine del formato singolo. Un non luogo dove l’indietronica diventa una scusante per superare una barriera formale (anche di facilità nella composizione, certo) e approdare a nuovi universi dove l’elettronica è un punto di partenza e non più d’arrivo, dove il pop si trasforma e viene violentato in forme frammentarie d’ascolto. Dove alla fine prevale la curiosità musicale del portarsi avanti. E noi non potevamo mancare all’appuntamento. Nota d’eccezione: ogni canzone apparsa negli split è un inedito.