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20 Marzo 2007 | SubPop | Chairkickers.com |
Guai a voler prevedere in anticipo le mosse di soggetti tanto genialmente scostanti; specie se il “periodo non collegato” è sconvolto da tempeste emotive fatte di esaurimenti nervosi, dolorosi avvicendamenti interni (il bassista Zak Sally) e un quadro internazionale che certo non avrà fatto il solletico alla la sensibilità dei bardi di Duluth.
Laddove si ipotizzava un futuro ancora più easy degli spunti pop intravisti nel bellissimo e spiazzante ‘The Great Destroyer’ occorre invece fare i conti con un panorama sonoro ben diverso. L’ormai proverbiale muro del suono innalzato dall’architetto Dave Friedmann si è letteralmente sbriciolato, il cielo si è fatto d’un bianco sporco come quello di copertina e ci tocca inalarne le polveri velenose, fibre d’amianto e chissà quali altre malsane esalazioni. Le chitarre ci sono eccome, ma non producono le consuete spirali d’accordi avvolgenti; tranne per un paio di episodi più diretti (“Hatchet” e “In Silence”) preferiscono piuttosto ottunderci i sensi di effetti che si stagliano discreti sullo sfondo per poi pungere, fischiare e gemere in superficie, lo stesso per un basso che si esprime a note sparse e pulsanti. Di cosa sono fatte questi brani allora, vi chiederete? Di armonie vocali mai così “spirituali” e austere, quasi un gospel del giorno del giudizio, due voci stentoree e allarmate; di percussioni ora marziali (“Sandinista”) ora listate a lutto (“Dust On The Window”), altrove il prodotto di battimano che nulla hanno di festoso e spensierato (in “Breaker” è un frangersi di nocche, incontro doloroso e fugace); di una patina d’elettronica sobria e cangiante, in grado di sottolineare la sensazione di sconsolato distacco, il senso di perdita ovunque rilevabile.
A sezionarlo col bisturi si rende forse l’idea di una poltiglia davvero poco digeribile, ma le canzoni, che si attestano tutte sui tre minuti in una formidabile alternanza di vuoti (le musiche) e pieni (le voci), conservano una struttura magistralmente definita e coesa che le rende assolutamente penetrabili per chi vorrà seguirle nei propri umbratili tracciati.
Ubbie che possono ricondurre ai penultimi Radiohead (il piano scordato di “Take your time” ricorda “Pyramid Song”..), gli impercettibili crescendo dello Scott Walker dell’ultimo decennio, il minimalismo di They Might Be Giants privati di qualunque voglia di scherzare, secoli e secoli di preghiere sacre e profane.
Questo è un disco preoccupato, suona come un monito, un presagio sinistro, mette soggezione e non se ne preoccupa affatto; vi richiederà un certo impegno e una certa predisposizione alle ferite; non poco di questi tempi, ammetterete, ma nemmeno troppo dati gli incantesimi che prospetta( “Murderer” e l’arcano yodeling di “Always Fade” su tutti…).
Dal fondo di questo stretto cratere la luce assume tutt’altra prospettiva.