Pelican + Torche: Summer into Autumn

Non sarei tornato a vedere i Pelican per la terza volta se non fosse stato per i Torche, che da mesi – dall’uscita di Meanderthal, in particolare – adoro senza ritegno. Ho appositamente evitato di stare in piedi durante i Lento: non me ne vogliano, niente di personale, ma già l’ascoltare da lontano riff strappati agli Isis senza la minima intuizione che faccia venir voglia di tendere l’orecchio mi irrita considerevolmente. Posti questi due paletti che mi renderanno ulteriormente detestabile, passiamo alla sostanza: i Torche spaccano tutto. E’ questione di influenze e modelli, di attitudine boscaiola, urgenza punk, suono grasso e sostanzioso, tendenza a buttare tutto in caciara tenendo presente la melodia e il tiro, capacità di scrivere grandi pezzi che in due-tre minuti riassumono un sound tipicamente americano, tipicamente anni ’90. Inutile soffermarsi sulla scaletta che ripropone praticamente tutto l’ultimo lavoro, necessario spendere due parole sugli stupendi vinili (c’è lo zampino di John Baizley) e sulla presenza scenica, Juan Montoya alla chitarra regala quel pizzico di sudore metallaro old school e Rick Smith in mutande si sbraccia dietro alla batteria facendo in continuazione smorfie preistoriche alzando notevolmente la resa della band sul palco. Clamorosa la Meanderthal suonata sul finale, tra bassi con i bassi roboanti a tirar giù l’Init e le trascinanti Healer e Across the Shields, con la voce di Steve Brooks sempre un po’ troppo bassa rispetto alle chitarre, unico difetto che ha rovinato lo spettacolo fino agli ultimi pezzi. E questa prima pecca a livello di suoni è solo un assaggio della seguente mezz’ora – e oltre – di cambio palco, con i Pelican visibilmente scazzati (non si è capito bene, ma dovevano anche avergli appena rubato qualcosa), tra suoni di batteria che non escono fuori e Trevor sempre più nervoso a ridere sotto i baffi, acconciato come un residuato tossico glam/hardcore. E proprio su di lui saranno puntate – premeditatamente o no? – quasi tutte le luci del palco, per quasi tutto lo spettacolo, rendendolo protagonista e fulcro di un gruppo che in realtà ha negli intrecci strumentali tutta la sua forza e impatto. La scaletta pesca molto dall’ultimo disco e qualcosa da quello prima, trovando anche lo spazio per un’anteprima di un pezzo che dovrebbe finire su un sette pollici di prossima uscita; pezzo interessante, tra l’altro, vicino a certe ritmiche quadrate del primo ep. A parte la bellissima City of Echoes, forse anche grazie ai suoni leggermente meno impastati rispetto al resto del concerto, i pezzi di ‘The Fire in Out Throats Will Beckon the Thaw’ risplendono di una luce particolare, incantano, serpeggiano e fluiscono con una naturalezza che sarà difficile per i Pelican trovare ancora. Ripensando a Firenze '06 e a Milano l’anno scorso non posso negare di averli trovati meno in forma, anche se paradossalmente a livello di strumentazione e coesione sembrano essere migliorati molto: colpa dei suoni, dei furti, della scenetta ormai ridicola di scappare nel retro per poi rientrare e fare un pezzo da Australasia stiracchiatissimo e annegato in una coda noise che ormai la fa pure Gianni Morandi a fine concerto, ma ci piacciono di meno. Ma ci piacciono.

le foto presenti non si riferiscono al concerto recensito