Il live di venerdì al Folkclub si è tenuto in piedi in funzione del passato. Anzi, di due passati. Quello prossimo che attraverso i percorsi di Cccp e CSI ha raccattato una truppa di ammiratori cresciutelli verso un locale decisamente estraneo dai canonici circoli “alternativi”; e poi il passato remoto, le terre natìe e gli anni d’infanzia in cui il reduce Ferretti è tornato a rifugiarsi dopo le lunghe scorribande musicali di cui sopra, e che ora costituiscono la materia prima del suo spettacolo “Bella Gente d’Appennino”. Quando un artista e il suo pubblico arrivano nello stesso luogo seguendo due percorsi paralleli, è difficile sperare in una riunione affiatata e calorosa. Alla meglio si potrà evitare lo scontro diretto, confidando nelle tolleranze reciproche, ma è raro che questo timore reverenziale colmi delle distanze o aiuti a creare delle confidenze.
Da parte sua lo stesso Ferretti fa ben poco per venire incontro ai suoi fedeli. Un atto unico da più di un’ora e venti, nessun applauso, nessuna chiacchiera informale, nessun bis e sopra il palco soltanto la sua voce e un violino (quello dell’ex Ustmamò Ezio Bonicelli). Eppure, malgrado l’allestimento spartano, in alcuni passaggi lo spettacolo è suggestivo mentre in altri semplicemente bellissimo: in pochi attimi ti dimentichi degli aspetti noiosi che solitamente si accompagnano alla frustra pratica del reading, e la sua voce di baritono riesce ad incollarti ad ogni singola sillaba. Digerisci con una facilità che non avresti mai detto pagine e pagine di una letteratura quantomai ostica, segui una per una le parole nel loro rimbalzare, lo spostamento inaspettato degli accenti che trasforma il parlare in un declamare, il declamare in un salmodiare (non troppo) laico e il salmodiare in un canto vero e proprio. Ripercorrendo i propri memoriali la voce ferrettiana fa riaffiorare brandelli musicali dalle storie di CSI e di Cccp, ma senza scadere mai nessun tipo di autocompiacimento: le melodie di “Del Mondo” e “Madre” si sciolgono nel flusso unico delle letture e quasi regolarmente sfociano in un canto popolare o si perdono nel latinorum delle innodie sacre. Seguire attentamente tutte le evoluzioni è un’esperienza affascinante ma di un fascino arcaico, tanto tradizionale (e tradizionalista) nell’estetica e nei contenuti da non poter lasciare dubbi riguardo alla buona fede della sue conversione filo-conservatrice: un protagonista della scena pop rock che si “riduce” ad intonare ottavine maremmane di fronte a un centinaio di persone deve aver passato qualcosa di serio.
A sua discolpa si può sempre ricordare che ci sta avvertendo sin dal primo giro di boa: “occupano spazi ottusi gli idoli / clonano miliziani dai ritmi cadenzati”. Oppure “non fare di me un idolo mi brucerò / se divento un megafono m’incepperò”. Sono versi che risalgono all’esordio del Consorzio e avrebbero dovuto fare da monito per tutti gli aspiranti apostoli: ma allora il fascino del personaggio di Padre Ferretti Eremita poté più di ogni dirottamento e riuscì a trascinarsi dietro il suo popolo per ancora un decennio buono. Questa invece è la prima volta in cui, oltre ad incutere rispetto, la sua aurea ieratica “allontana”, tenendo chi la ammira ad una timorosa distanza.