Gorillaz – Plastic Beach

Acquista: Data di Uscita: Etichetta: Sito: Voto:

Come si fa a non amare i Gorillaz? Come si fa a non amare un disco pieno di idee, divertito e divertente, in cui le prime parole pronunciate sono “The Revolution Will Be Televised” citazione capovolta del maestro Jill Scott-Heron affidata alla voce di Snoop Dog?
Si può, certo, a mente fredda avere la sensazione che la formula Gorillaz, sgargiante electro pop e hip hop flatulento e funky loffio, sclerotizzandosi abbia mostrato il fianco della sua scarsa potenza innovativa che non vada oltre a delle contaminazioni quasi naturali.
Meno naturale però, obbietto, è avere in un solo brano riferimenti a Vivaldi, Reggaeton, Rondò Veneziano e East Cost, come succede in White Flag. O Sweepstakes con l’oscillazione ossessiva tra dub, cantilena e il rap di Mos Def, in un dialogo proibito in crescendo tra synth e fiati della Hypnotic Brass Orchestra.
Come regolarsi col rischio pastrocchio? Se si prescinde dalla dimensione che domina l’intero progetto e che lo rende unico e strabiliante, ovvero quello del gioco, si rischia di cadere facilmente in una critica ottusa, preoccupata dell’organicità più che del senso di un’opera.
D’altronde è pur vero che troviamo in quest’album il signor Lou Reed in una delle cose più loureedianamente bella che mi sia capitato di ascoltare da decenni. Oppure se esistono brani dei Little Dragon più littledragoniani della raggelante Empire Ants, bisogna che lo diciate subito. Ma Mark E. Smith quant’è che non era minaccioso come nel cameo del pacioso slide-core ballereccio a cui presta voce? E chissà se oggi i Clash suonerebbero più o meno come fanno la metà di loro sul brano che da il titolo all’album.
Un disco insomma, in bilico tra il proprio grezzo ma irresistibile marchio di fabbrica, ma anche una fenomenale resa produttiva di input artistici altrui, resi al massimo.
Eppoi provate a resistere a Superfast Jellyfish, senza provare una rinfrescante sensazione ridanciana che fa troppo bene ai muscoli facciali. Il ritornello di Stylo è un tuffo in una pozza di benzina, tutti unti dalla grassissima base dub.
Non mancano, soprattutto nella seconda parte del disco, brani meno riusciti in una scaletta forse un po’ troppo ricca, vista anche la spiazzante varietà di suoni che l’attraversa.
Una grande giostra in cui spicca come mosca bianca una ballata soul lancinante per la dolente voce di Bobby Womack. Splendida perla, proprio nel suo profondo isolamento.
Disco perfetto, in coupè, sul lungo mare, tramonto rosso, col vento in faccia, mentre si va a prender le ragazze. Meno per la coda per il traghetto coi bambini che strillano.