P. Capovilla – Eresia Socialista, Eresia dell’Amore @ Auditorium di S.Umiltà Faenza

Attitudine e Visuals: un Pierpaolo Capovilla elegantissimo, nel bel mezzo del pulpito barocco dell’auditorium della chiesa di S. Umiltà , e carico dell’alone luminoso di potentissimi riflettori (che penso gli abbiano dato il tormento dal punto di vista fisico), sembra un moderno messaggero appena proiettato lì da un fulmine di luce ultraterreno, che lo abbia scaricato nell’abside, bucando il soffitto, ad annunciare la fine del mondo. Capace di giocare su registri luciferini, come su registri intimi e confidenziali, utilizza e alterna potentemente mimica, postura, urla, rabbia, strepiti e sussurri meglio di quanto avrei potuto immaginare. Sorprendente ed evocativo. Rockcocò.

Audio: il riverbero dell’abside della chiesa non si concilia facilmente con l’uso di un microfono e soprattutto con l’uso che di questo ne fa Capovilla. Ma la suggestione del contesto vale la  pena di concentrare un po’ più l’attenzione per cogliere la sequenza delle parole, non sempre distinguibilissime. I due musicisti di supporto (l’immancabile Favero alla sezione chitarre e laptop) e un piano a coda fanno un ottimo lavoro, supportando le parole con tappeti musicali enfatici e inquietanti, ma allo stesso tempo non invasivi.

Setlist: l’audio di quello che sembra essere un pompino apre l’ Eresia Socialista, ovvero le poesie del Majakovskij più tosto, futurista, arrabbiato e, usando il termine come categoria estetica, “punk”. Capovilla sembra aggredire la platea, sembra vedere in essa una compagine della società capitalista che il poeta sbeffeggia, colpisce, schiaffeggia e mette alla berlina. Indimenticabile il ritratto-caricatura di Mussolini. L’Eresia dell’amore mi ha colpito meno, ma per questo lascio la parola alla nostra Ida Stamile.

L’Eresia dell’Amore rivela invece un dilatato alone di mistica e impalpabile intimità. Le parole fluiscono tra rarefatti e nebulosi antri sonori; i versi prendono vita; le note si fanno quasi umane, mentre una malinconia mefistofelica traspare sul volto di Capovilla. I suoi occhi fissano il vuoto di un inferno scenografico che canta un amore maledetto e lontano; la sua voce, “nuda” e mestamente asciutta, svela metaforicamente i corpi di  Lilia e Majakovskij nel delirio delle loro passioni. L’Eresia dell’Amore colpisce per l’inquieta esplosione di pensieri ed emozioni che trafigge lo spettatore e lacera l’anima, sullo sfondo di un sacrilego altare amoroso dimenticato da Dio. È come una lacrima, verbo crocifisso che suona la “colonna vertebrale” di carne e spirito, nel silenzio dello smarrimento.

Momento Migliore: la prima parte dello spettacolo a mio parere, l’Eresia Socialista, più potente e destabilizzante, ma è questione di gusti personali. Peraltro fantastici i momenti in cui Capovilla sospende la parola, e resta immobile, con lo sguardo severo, fors’anche per più di un minuto, a fissare il pubblico con una smorfia di disgusto. Inquietante è la parola giusta.

Pubblico: silenziosissimo, anche a causa della “cazziata” pre-spettacolo del tipo “niente cellulari, niente fotografie, niente riprese, niente di niente, rispettare il silenzio “ecc ecc. Ma confido nel fatto che la potenza di certe invettive e del contesto visivo abbia avuto la propria parte in questa sorta di magica sospensione. Eterogeneo, molti addetti ai lavori del MEI giustamente stremati da una giornata passata sotto una pioggia spietata (non so quanti esterni al “giro” ci fossero, effettivamente). Tra il pubblico si nota anche il nuovo, bravissimo batterista dei One Dimensional Man.

Locura: ehm… No.

Conclusione: molto più di quanto ci si potrebbe aspettare da un “attore” del rock abituato a ben altri palchi. Un’esperienza che vale la pena di essere vissuta. Si astengano però coloro che cadono facilmente preda della noia. Per me, consigliatissimo.