Luci della Centrale Elettrica – Per ora noi la chiameremo felicità: Ma anche no…


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Quando tornerai dall’estero

L’ACCUSA

P.M. Emanuele Binelli

Giudice e illustrissimi signori della corte: non ho bisogno di ascoltare questo disco, perché già so quello che contiene: Vasco Brondi che rifà Vasco Brondi.

Sono sicuro che se lo ascoltassi con attenzione qualcosa di buono ce lo troverei, ma non lo farò.

L’accusa che rivolgo qui ed ora al nuovo disco di Vasco Brondi è di non farmi venire la voglia di ascoltarlo, in particolare dopo aver avuto contezza dei due singoli che lo hanno preceduto.

No, non ho voglia di ascoltare Vasco Brondi che rifà Vasco Brondi, sostituendo alle parole altre parole, con le stesse melodie vocali, con gli stessi accordi.

Mi rendo conto che sto provocando. Ma sto provocando per affermare qualcosa.

E’ davvero Le Luci della Centrale Elettrica un progetto fragile come gli anni zero che canta, ed è pertanto organico a questi anni di usa-e-getta musicale in cui si colloca: l’entusiasmo che provi per lui si misura nel breve tempo di una prima volta. Dal vivo ti stupisce, ti aveva colpito perché urlava, perché vinceva con un urlo e una chitarra disturbata la tua scarsa presenza di attenzione. Il secondo appuntamento è stato già più noioso. Stessa cosa dicasi per il secondo disco.

Mi sento comunque di dire due parole a discolpa di questo artista, e la corte mi perdonerà di questa piccola eccezione alla nostra liturgia. A sua discolpa voglio dire che la colpa non è sua.

La colpa è di questo Paese atroce per chi produce, vende, registra, vive (e parla) di musica.

Girano troppi pochi soldi intorno al nostro mondo. E se per poco riesci ad emergere dal mucchio, e a fare qualcosa di più della stragrande maggioranza dei musicisti che ti circondano, vivi nella tremenda paura di perdere quell’esiguo successo che ti sei conquistato. E allora ripeti te stesso, la tua piccola formula magica che ti ha aperto le porte del tuo piccolo paradiso personale.

Concorderete con me che non è la condizione migliore per creare, la Paura. Concorderete con me che castrare la propria ricerca artistica non è la cosa migliore per l’Arte.

Ma diamo le colpe a chi di dovere, e rendiamoci conto che se vogliamo gli Arcade Fire non dobbiamo che pretendere le leggi e il contesto sociale che possano generare gli Arcade Fire. Il resto è fuffa.

Romanticamente non vostro, l’accusa.

LA DIFESA

Avv. Paolo Viscardi

Ringrazio l’illustre rappresentante dell’accusa per aver manifestato così candidamente la propria ignoranza riguardo all’argomento di cui ha tentato di discutere sostenendo chiaramente e in maniera tanto snob “non ho bisogno di ascoltare questo disco, perché già so quello che contiene”, e sottolineo questo non per cattiveria, ma per portare alla vostra attenzione un fenomeno che si è verificato in concomitanza con l’uscita del disco di cui stiamo discutendo in questa sede: a differenza del clamore (spesso esageratamente positivo) suscitato qualche anno fa con l’uscita prima del demo e poi di “Canzoni da spiaggia deturpata”, si è potuta notare invece una recente diffusa ostilità verso il nuovo lavoro del Brondi, un accanimento che nella maggior parte dei casi si è rivelato ingiustificato o pretestuoso. Prima che “Per ora la chiameremo felicità” fosse ancora uscito, è stato istituito una sorta di gioco al massacro e spalare merda su Le Luci Della Centrale Elettrica (mi si perdoni il linguaggio colorito) è stato uno sport molto in voga, soprattutto corredando le accuse con la candida ammissione di aver ascoltato nulla o poco, nel migliore dei casi (un singolo, un pezzo dal vivo eseguito tempo fa), come purtroppo avvenuto in questa onorata sede. Siamo di fronte al gioco dettato dall’hype: prima YEAH, adesso BLEAH. Non si è di fronte a provocazione ma a becero pregiudizio verso un giovane cantautore e Vasco Brondi non ha fatto molto per invertire o modificare il percorso della sensazione della scena indie verso la sua musica.

Ringrazio quindi il mio esimio collega per aver inficiato da solo la propria dichiarazione (come testè ho dimostrato) e procederei focalizzandomi sulla vecchia e sterile accusa detta del “Vasco Brondi fa sempre le stesse canzoni”. Ora tenete bene a mente che:

– si sta parlando di un artista al suo secondo lavoro (due! Ne ha fatti due, non dieci)

– vogliamo fare altri esempio di persone che suonavano sempre la stessa canzone? Johnny Cash? De Andrè? I Ramones? Gli Ac/Dc?

– per anni ci si è lamentati della mancanza di un nuovo cantautore (che ancora questa parola rischia di puzzare di stantio, così come è legata a gente morta, sia artisticamente che fisicamente), ora che ne esce uno capace di creare dibattito e dalla forte personalità e stile definito ci si lamenta. Ci sono modelli forti a cui Vasco fa riferimento ma da cui si svincola per cercare una strada diversa, nuova. La sua scrittura è sempre pungente, le immagini e le suggestioni (incastonate nel flusso di coscienza dei suoi testi) vivaci. No, le canzoni non sono tutte uguali, sono canzoni che si amalgamano bene e che è evidente che siano uscite dalla stessa penna. Se il primo disco creava una rottura con la canzone d’autore, questo secondo è una conferma del suo modo (attuale, in futuro chissà) di esprimersi.

Per tutto ciò il disco “Per ora la chiameremo felicità” è decisamente da difendere. Starà poi ognuno al giudizio soggettivo su quanto le suggestioni giovani e urbane dell’autore possano rappresentare qualcosa per l’ascoltatore, giudizio da dare (lo ricordo) solo ad ascolto ultimato, senza i brutti pregiudizi di chi crede di possedere la verità riguardo a qualcosa di cui non ha nemmeno fatto esperienza.

Su un punto non posso però che arrendermi agli attacchi dei detrattori: la bruttezza della copertina.

In fede, la difesa.