Dopo “Tutto qui – la storia dei Massimo Volume” (Arcana 2010), un altro grande libro-intervista su una formazione storica dei Novanta: Trent’anni in levare, appena uscito per i tipi di Chinaski Edizioni, raccoglie le confessioni di chi fa o ha fatto parte della formazione torinese e di chi in qualsiasi modo ha concorso a scriverne la storia. Una buona occasione per incontrare telematicamente Madaski, cofondatore assieme a Bunna e anima ‘scura’ del gruppo, e per sfatare un paio di falsi miti. Per dirne una, lo sapevate che al leader del gruppo reggae più famoso d’Italia del sole della Giamaica e della cultura rastafari non gliene potrebbe fregar di meno? E che ha rischiato di sedere in regia per produrre Jovanotti, ma poi non ne ha fatto nulla? E, per ultimo, l’avreste mai detto che in realtà gli Africa in realtà sono un ‘gruppo rock’?
Prima l’antologia-cofanetto Biografrica Unite, poi un nuovo disco intitolato Rootz, ora il libro sulla vostra storia. Dopo trent’anni gli Africa Unite si guardano indietro per mettere un punto e a capo?
Alla fine possiamo dire che gli Africa non si sono mai fermati, in questi 30 anni, il che significa, citando Ali dei Casinò Royale, che “ogni stop è solo un altro start”. Siamo in piena forma, il tour europeo appena fatto è stata un’ esperienza galvanizzante e ci sentiamo davvero al top.
All’inizio del libro si parla anche di Pinerolo, la cittadina da cui parte la vostra avventura, lontana anni luce dal solare immaginario giamaicano. Eppure nei dintorni torinesi le varianti del sound in levare hanno sempre avuto fortuna. Ti sei mai chiesto cosa tenga in piedi questo filo diretto tra Kingston e Torino?
Sinceramente l’immaginario giamaicano non mi è mai interessato più di tanto, i miei gusti musicali e il mio modo di rapportarmi alla vita sono davvero lontani anni luce da quello stile, molto di più rispetto ai milleduecento chilometri che separano Pinerolo da Kingston.
Raccontate di essere stati la prima band italiana nel ’91 ad andare in Giamaica. Cosa vi portate dietro di quel viaggio?
Personalmente quasi nulla, non sono mai tornato in Giamaica da allora e non penso proprio di tornarci.
Avete firmato per la Polygram nel ’95 per poi tornare indipendenti con l’uscita di Mentre fuori piove. Scrivete che, con la possibilità di registrare in uno studio vostro, era questione di autonomia e di comodità: non c’entra il fatto che l’interesse che le major avevano mostrato per le band “alternative” nella seconda metà dei novanta sia andato pian piano scemando?
Biografrica e Rootz sono di nuovo usciti per la Universal In quel momento, la Venus ci fece una proposta economica molto interessante, meglio di Universal: accettammo. La ripetè per Controlli, anche Universal la fece e scegliemmo ancora Venus. Per noi non cambia assolutamente nulla, siamo strutturati in modo da gestire autonomamente il budget, sia che arrivi da una major sia che provenga da una ”indipendente”. Ora le proposte interessanti non le fa più nessuno e i dischi non si vendono, non per questo smetteremo di produrre il nostro materiale.
Negli anni ’90 chiunque suonasse musica “altra” poteva contare sulle label indipendenti da un lato e sul movimento politicizzato dei centri sociali e delle posse dall’altro. Voi sembravate esattamente a metà strada fra i due circuiti….
Indubbiamente l’interesse creatosi in Italia negli anni ’90 per la musica altra è stato grande, e siamo stati bravi (mi riferisco a noi come insieme di gruppi del periodo) a coltivarlo.
E’ stata un’ esperienza unica e interessante,ad un certo punto con festival come il Tora Tora abbiamo persino sognato di cambiare un po’ le cose. Purtroppo pochi hanno raccolto la nostra eredità e i nostri coetanei sono quasi gli unici che continuano a portare alta la bandiera di musica vera ed interessante in Italia… a parer mio, naturalmente.
Chi o cosa sopravvive di quel periodo pionieristico? C’è mai stato “un qualcosa” che ne abbia preso il posto oppure si continua a lavorare nei posti di allora, con i protagonisti e gli interlocutori di allora?
Beh, il panorama è molto peggiorato, specialmente dal punto di vista dei club che si sono decimati. Anche la funzione dei centri sociali è cambiata, c’è stato un grande appiattimento. Non vivo questa situazione come dire …ricordando i bei tempi che furono: gli Africa fanno lo stesso numero di concerti e mi diverto forse più ora che allora, però per i gruppi nuovi è davvero un gran casino. Mancano quasi totalmente le opportunità.
Parlando di nuove generazioni, ai tempi della consacrazione faceste proseliti, alcuni anche di un certo livello. Cosa resta di quella “nuova leva”?
Ci sono una marea di band reggae e cantanti in Italia, forse troppi, ma mi pare che i loro riferimenti siano troppo stretti e diretti alla “cultura” giamaicana. Ritengo questo uno sbaglio madornale che rischia di sconfinare nello sterile scimmiottamento di modelli non certo edificanti, o comunque decisamente inapplicabili alla nostra società. Poi per me il rastafarianesimo è inconcepibile tanto quanto il cattolicesimo o altre religioni, la superficialità di certi gruppi nostrani è data dall’imitazione di modelli senza quel processo di appropriazione e costruzione dello stile che rende il gruppo davvero tale….. una band vera e propria. Se in una prima fase, chiaramente, ci si ispira a modelli precisi, poi è obbligatorio emanciparsi il più velocemente possibile dagli stessi, per creare qualcosa di veramente proprio e, possibilmente, originale.
Le tue (dis)avventure da mancato produttore di grandi popstar, come Lorenzo Jovanotti, sono fra i passaggi più divertenti ma anche più significativi del libro-intervista. Pensi che quella del “regista del suono” sia ancora una figura aliena per il mainstream italiano?
Le cose sono un po’ cambiate, comunque non ero adatto allora e men che meno adesso, anche se sono sicuramente più bravo tecnicamente e forse anche un po’ più malleabile. Resta il fatto che il mainstream italiano fa piuttosto cagare. Forse Jovanotti, ora che è maturo e posato, cantautore con testi pregni del buonismo più deteriore, è pure peggio di prima.
Sempre in “Trent’anni in levare” ripeti più volte la tua teoria secondo la quale gli Africa Unite sarebbero in realtà “un gruppo rock”. Ce la spieghi anche qui?
Questa è una posizione sicuramente provocatoria, ma parlo di una questione di attitudine. Gli Africa sono molto lontani dall’immaginario filosofico e comportamentale delle band e dei personaggi reggae. Non fumano, bevono volentieri e molto, non pregano rastafari ma bestemmiano spesso, non si portano mai la numerosa famiglia dietro, prediligono le groupies, non fanno cool meditation ma a volte si menano tra di loro. Che dire…. più Motley che Marley….hahahha, mi vien da ridere.
Ora una domanda al Madaski ascoltatore. Segui la scena elettronica londinese di oggi? Credi che con il dubstep siamo già arrivati alla sterilità del trend o c’è ancora qualcosa di interessante che si muove?
Sinceramente non lo so. Ascolto pochissima musica.
Considerando la vostra discografia da Un sole che brucia in poi, si ritrova un’alternanza quasi regolare tra capitoli legati alla tradizione reggae e altri spostati verso un sound più dub, più tuo. Se tanto mi dà tanto, dopo Rootz dovrebbe toccare a te: hai/avete già qualcosa in cantiere?
Finiremo il tour estivo e decideremo il da farsi, io uscirò il prossimo anno con la seconda puntata di The dub sync, il progetto che vede impegnati altri due Africa, Paolo Baldini e Papa Nico, al mio fianco: dub ed elettronica senza confini dunque…
Avete mai la tentazione di archiviare il capitolo Africa Unite anche solo per preservarlo così com’è stato fin’ora, per proteggere la sigla dal rischio di sciuparla? Vi pesa, insomma, la responsabilità di essere una formazione già “storica”?
NO, in maniera totale ed assoluta. Non con questa motivazione perlomeno.Il segreto degli Africa è andare sempre in salita, le cose non sono mai state semplici per noi, quando ci renderemo conto di avere la pappa fatta e di non dover più pedalare, lasceremo perdere.