Neon Indian – Era Extrana

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11 Ottobre 2011 Mom + Pop NeonIndian.com

Quindici-vent’anni fa era impensabile per una band con due anni di carriera avere l’ansia da prestazione già al secondo disco: già si era fortunati a ricavarsi una fetta di visibilità anche risicata arrivati a questa tappa. Per farlo bisognava essere dei geni come i Radiohead, giusto per fare un nome a caso. Ma oggi, con internet la globalizzazione dell’informazione è realtà, e giovani talenti riescono a emergere praticamente al primo colpo, a volte grazie a del marketing più o meno studiato, a volte quasi per caso, come nel caso dei Neon Indian.

Dietro a questo moniker si celano quattro gregari, “assoldati” per le esibizioni live, in sostegno di Alan Palomo, un personaggio figlio di quest’epoca di melting pot estremo, un hipster di origine messicana che bazzica tra Austin e New York, e si permette di andare a vivere un mese in Finlandia per registrare il suo secondo album… a uno così cosa volete che importi se il secondo disco sarà un successo o meno? In realtà, molto più di quanto  voglia farci credere. Con l’album d’esordio Psychic chasms Palomo ha esplorato la sua attitudine più cazzara con pezzi molto easy listening e un sound che strabordava su sponde kitsch, ma con il suo nuovo lavoro inizia a mostrare una certa maturità, dedicandosi di più all’introspezione e a una velata malinconia, senza però discostarsi troppo dai suoni del precedente album. A riprova di questa inversione attitudinale  il titolo stesso dell’album: per la serie “sapevatelo” extranar vuol dire anche sentire la mancanza di.

La partenza con l’intro Heart: attack e la successiva Polish girl già fanno intuire che qualcosa è cambiato: la nostalgia non è più quella di non aver preso un acido (come era cantato nel precedente disco), la base è decisamente easy ma è solo una maschera: dietro c’è inquietudine, sentimenti più complessi e profondi, espressi da liriche che fanno intuire che forse ma forse quell’acido, anche se in solitaria, poi è stato preso.

Lo stesso mood di fondo emerge nella maggior parte dei pezzi, ma con più evidenza e con un risultato più apprezzabile in Fallout, una sorta di ballata emo affogata nei synth, e Future sick, un trip finito male in cui il giovane Palomo inizia a fare i conti con la fine dei suoi anni da giovincello, immaginando un futuro di cui già si sente nostalgico.

Le uniche reminiscenze del precedente lavoro si hanno per qualche attimo nei coretti dal gusto un po’ 80s pop tra una strofa e l’altra di Hex girlfriend, ma è giusto una chimera; Arcade blues invece spinge più decisamente su un impianto disco-funky, tra l’altro terminando in modo decisamente brusco un disco che stando all’autore dovrebbe esser stato concepito con una struttura monolitica, che fino a quel momento regge con molta dignità; è una scelta dettata dall’eccentricità di Palomo o un’avvisaglia di approssimazione e superficialità?

Altro neo è che al cambio di attitudine non corrisponde di pari passo una rinnovata voglia di esplorazione di soluzioni sonore più complesse o semplicemente diverse: qualche scopiazzatura qui e là rovina quello che poteva essere una pietra miliare nel suo genere. In The blindside kiss si odono distintamente i Jesus and Mary chain, nonostante siano abbastanza shackerati nel frullatore “nintendo sound” tanto caro al giovane texano, mentre l’intro di Future sick è un omaggio fin troppo evidente e fin troppo generoso ai Boards of Canada, che viene replicato, anche se con meno evidenza, nell’attacco dell’album (Heart: attack);  in Heart: release, in una singolare rivisitazione funky, e in un’altra intro, stavolta di Halogen, che a dirla tutta riesce ad allontanarsi con stile da quelle lande. Stessa ispirazione potrebbe aver avuto la soluzione degli interludi strumentali, riciclata peraltro dal precedente album, ma si può benissimo credere nella buonafede di Palomo.

Suns irrupt infatti, mescolando un sound “a 8 bit” e partendo da un’intro con sonorità simil dubstep che camaleonticamente si trasforma di nuovo in IDM, mostra che il Palomo, dopotutto, del talento nell’accostamento di suoni elettronici anche antitetici ce l’ha.

Di fronte a un personaggio del genere, così sfuggente e ambiguo, e a un disco del genere, il giudizio è arduo: e come Oscar Wilde insegna, è nei casi come questo, in cui un opera spiazza, che molto probabilmente siamo di fronte a un capolavoro. Ma è anche vero che pure lui, come tutti noi poveri mortali, di cazzate ne diceva; quindi siccome sono in vena di scomodare altri pensieri filosofici alti, dico che la verità sta nel mezzo. Questo Era extrana è il  parto di una mente brillante e un animo sensibile, però ancora ingabbiato in uno stile che per il momento non riesce o non vuole modificare più di tanto. Un disco che ascoltato senza alte aspettative cattura e fa sognare: e si sa che il risveglio da un sogno fa guardare le cose dalla prospettiva della realtà vera che, dopotutto, anche se non ci piace, è quella giusta; ossia quella di un disco poteva osare di più, ma che merita comunque rispetto e considerazione.