Mark Lanegan – Blues Funeral

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Al Funerale del Blues c’è una drum machine che suona a morto, e state pur certi che ai puristi delle dodici battute la cosa non andrà giù. Ma va detto, a discolpa degli ‘untori’ elettronici, che la prima volta che un disco di Alan Lomax finì sul piatto del dj fu esclusivamente per un atto d’amore,  dimostrazione che alla musica del diavolo ci si poteva abbandonare anche senza aver mai preso in mano una chitarra.

Ora, che cosa c’entri in tutto ciò Mark Lanegan,che semmai dovrebbe stare dall’altra parte della barricata, quella dei bluesofili analogici, è presto detto. Perché mentre noi malfidenti si pensava che si stesse godendo un paio d’anni sabbatici, sempre a perder tempo con tutte quelle collaborazioni collezionate a spasso per le discografie degli altri, l’ex Screaming Trees in realtà faceva i compiti a casa. Diviso come si conviene tra la sua anima root, quella più rock e una terza ancora poco conosciuta che cresceva guardando con interesse in direzione di new wave, trip hop e derivati: gli Unkle lo hanno ospitato per un brano, i Soulsavers addirittura per due interi dischi. Facile che Mark abbia sbirciato un po’ nel retrobottega di entrambi, per imparare l’arte e mettersela da parte.

Una volta tornato a giocare da titolare deve aver presentato agli altri (è pur sempre alla “Lanegan Band” che il disco è accreditato…) le buone nuove – e il bello qui sta nell’immaginarsi la faccia da gonzo de massiccio Chris Goss quando l’amico gli ha comunicato che il loro batterista stava “dentro il computer”. (Facili) ironie sui desert rocker a parte, anche a paradigma rinnovato il gruppo funziona bene, ed è tutto fuorchè goffo o fuori ruolo. Importante, soprattutto, che si sventi un rischio divenuto palpabile proprio tra un featuring e l’altro, e cioè che quella voce da bel tenebroso fosse diventata un accessorio trendy, il classico nero che fa fine e “si porta su tutto” – e su tutti. Pezzi come Gray Goes Black o Gravedigger’s song riscattano invece una cifra autoriale che sa farsi riconoscere al di là degli strumenti. Anzi, è una simpatica coincidenza che proprio il numero più profanamente synthpop sia quello che meglio tratteggia i temi sacri del blues: Ode to Sad Disco è un inno alla redenzione a cassa dritta, all’illuminazione, “i was blind now I can see”, robe così.

Quasi quasi scappa da scrivere che il blues qui torna a esistere in altra forma, che lo spirito sopravvive alla carne eccetera, ma sarebbe una bugia: con tutto il fiorire di Muddy Water sanguinanti, di elegie da St Louis, con tanto di fantasmagorie da Harborview e di canzoni del becchino che risuonano, Blues Funeral è in tutto e per tutto un estremo saluto a una tradizione che fu. Ma, come si dice in questi casi, “gran bell’esequie”. E gran bravo officiatore.