Spector – Enjoy It While It Lasts

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Malgrado di questi tempi si cerchi di concentrare l’attenzione sullo spazio e la materia che lo occupa, da sempre il vero villano è stato il tempo. Peggio dell’essere fuoriposto è l’essere fuoritempo, ma a Fred MacPherson questo problema interessa quanto il due di coppe quando a briscola comanda bastoni. Sarà perché ha fiducia nella prossima invenzione di una macchina del tempo, il poco più che ventenne frontman degli Spector non sente il peso morale di aver creato una band-monstrum a metà tra Buddy Holly, vari conglomerati new romantic direttamente dagli ’80 e quei personaggi che riportarono in auge l’indie britannico nei primi anni 2000. Dopo aver tentato la fortuna con i Les Incompétents e gli Ox.Eagle.Lion.Man, nel 2010 MacPherson ha reclutato su internet gli attuali componenti degli Spector (tra cui un modello, il bassista Thom Shickle) con il supporto del suo “vecchio” amico Chris Burnam (ora alla chitarra) con l’obiettivo di creare canzoni pop di buon livello.

E ci deve esser riuscito, dal momento che i paragoni più frequenti sono con Killers, Pulp e Strokes. Questo disco d’esordio sarebbe, insomma, un compendio rassicurante di melodie ariose e danzerecce se non fosse per un inquietante retroscena: gli Spector sono spettrali. Il loro nome non deriva dal celebre produttore, è solo un’alternativa alla parola ‘spectre’, già usata da un altro gruppo e quindi non impiegabile. Le loro apparizioni sul web sono disseminate di richiami tombali come marmi e caratteri lapidari; l’etichetta LuvLuvLuv li definisce come “il fantasma nella macchina della moderna musica pop”…Nel video di “Celestine” citano la biografia di Anthony Kiedis…

Lo stesso titolo Enjoy It While It Lasts preannuncia le tematiche del disco, pieno di invocazioni mortuarie al non-risveglio e altre faccende raccapriccianti come amori infranti e scarti di volontà. Gli Spector sono un museo delle cere: così come questo disco è praticamente costituito da singoli precedentemente lanciati, loro sono appena nati, ma sono già morti; e in fin dei conti non c’è da lamentarsi. Sono stati l’ultimo grandioso raggio prima del tramonto: hanno fatto un buon lavoro sia sul versante floorfiller con pezzi quali “Chevy Thunder” e “What you wanted” (in cui sorprendono le soluzioni ritmiche), sia su quello più crooneristico con la perla dell’album, “Lay low”, una ballata orchestrata ad arte e valorizzata dalla voce baritonale di MacPherson che commuoverebbe il più abbrutito dei camionisti. La versatilità al limite della schizofrenia di MacPherson si riflette nei richiami al suo passato prog-metal in “No Adventure”, e comunque durante l’ascolto è sensibile la diversa mano dei sette produttori che hanno contribuito alla registrazione.

Gli Spector sono i primi a definire la propria musica come “niente che non abbiate già sentito”, e quindi bisogna avvicinarvisi senza troppe pretese, lasciando il campo alle orde di quindicenni che già li adorano. Chissà per quanto.