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15 gennaio 2013 | Interscope | Kendricklamar.com |
Nella storia del rap, pochi posti sono iconici quanto Compton, la città in cui il rap ha subito quella che forse è la più radicale delle sue trasformazioni, smettendo di essere solo musica da party e diventando musica da strada, storytelling, cruda espressione di realtà che sarebbero altrimenti rimaste nascoste o semplicemente ignorate.
Magari non si è mai trattato di denuncia sociale vera e propria, ma è certo che quell’attitudine a raccontare le cose come le si vive è diventato uno dei punti cardine del genere. Questo preambolo aiuta a contestualizzare a dovere l’esordio di Kendrick Lamar, un lavoro che potrebbe sembrare molto diverso da quello a cui la città degli NWA ci ha abituato e che invece ne incarna proprio la caratteristica principale, ossia l’ambizione di raccontare una realtà, o meglio la propria visione del reale, in maniera cruda e viscerale.
Certo, quello di Kendrick è un sussurro in mezzo alle grida, il racconto della sua storia personale piuttosto di quella del ghetto, ma la sua virtù sta proprio nel riuscire ad impressionare senza provarci in modo esasperato, con un rap che il più delle volte è pacato, sincero e ben strutturato, mentre passaggi più vivaci arrivano solo quando la situazione lo richiede (“Backseat Freestyle”). In ogni caso le strofe si intrecciano a produzioni sempre adeguate e originali, fatte di sintetizzatori funk sotto effetto di codeina e rullanti che arrivano sempre una frazione di secondo più tardi del previsto e se ne vanno con un eco, conferendo a tutto il disco un suono etereo e inusuale (“Swimming Pools”).
Questa delicatezza potrebbe far storcere il naso a chi preferirebbe continuare ad associare la West Coast esclusivamente al g-funk, ma “good kid, m.A.A.d city” si scrolla di dosso con disinvoltura l’ombra ingombrante del passato e, a suo modo, se ne dimostra la perfetta continuazione.