Villagers – Awayland

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Irlandesi, compatrioti dei più noti Two Door Cinema Club e Snow Patrol, i Villagers esordirono nel 2010 e pietrificarono, davvero, la critica in “un’immobilità angosciante” (stando alle parole del quotidiano The Guardian), finendo anche tra i nominati per il prestigioso Mercury Prize. E oggi, a distanza di tre anni, quell’immobilità, di cui sopra, rimane; ma non è tanto dovuta alla claustrofobia melanconica del precedente e riuscitissimo Becoming A Jackal (si sentano Ship Of Promises o Home per capire ciò di cui sto parlando); s’innalza invece a un nuovo stadio. I ritmi incalzanti, i paesaggi, le note liberatorie che lasciano l’impotenza, la paura di un qualcosa di eccessivamente distante da noi; quelle terre lontane irraggiungibili narrate come solo gli Shearwater avevano saputo fare, nella trilogia The Island Arc, colpiscono e si lasciano assaporare in una sorta di beatitudine momentanea, se può esistere (come cantano in Nothing Arrived, primo singolo estratto dall’album).

L’apertura affidata a My Lighthouse inganna, ad ascoltarla sembrerebbe che il gruppo capitanato da Conor O’Brien sia rimasto incatenato alle esperienze precedenti, per quanto meravigliose. Un po’ alla Bright Eyes in First Day of My Life, un po’ folkeggianti alla Fleet Foxes.

Ma il salto lo si nota presto. Basta la seconda traccia Earthly Pleasure. Le melodie si fanno più complesse nella loro struttura, a volte eccessivamente cariche, le strofe si fanno pressanti e stracolme per poi infrangersi e “rompere barriere cristalline trascinandosi per il mare come di carbone” (citando The Waves).

Eppure, nonostante questo, il disco non è perfetto come dovrebbe. Alcuni pezzi più “sperimentali”  come Passing A Message o Judgement Call, perdono le particolarità distintive che invece continuano a impreziosire pezzi come In A Newfound Land You Are Free, o Nothing Arrived, giusto compromesso, e forse miglior pezzo dell’album.