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Novembre 2012 | Matador | PaulBanks.com |
C’è chi sfugge alla monotonia del matrimonio circondandosi di ballerini brasiliani e chi, per allentare la cravatta ad una band ormai “brandizzata”, si mette a fare dischi da solo. È questo il caso di Paul Banks, cantante degli Interpol che, con un passato da dj e una passione per il vecchio hip-hop, ogni tanto sente il bisogno di spogliarsi del costume da perfetto impiegato post-punk per sentirsi onesto.
Era già successo nel 2009 con il grandioso Julian Plenti is…Skyscraper, e ora di nuovo con questo Banks, seppur in modo meno interessante: al di là del passaggio dal nome quasi-falso a quello vero (in linea con la percezione post-moderna dell’identità fluida che Banks difende a spada tratta), il fu Julian Plenti mostra un attaccamento più marcato alle sonorità degli ultimi Interpol, e quindi il tentativo di svelamento gli è riuscito a metà. Sebbene abbia affermato che i pezzi di Banks lo descrivano meglio di quanto abbiano fatto quelli di Skyscraper a loro tempo, da un punto di vista puramente estetico il confronto non regge: siamo tutti contenti che Paul abbia fatto un passo avanti nel processo di autocognizione, ma se ciò comporta produrre canzoni che al secondo minuto si perdono, ne è valsa la pena? Stracciare la musica per tracciare sé stessi: magari provare prima con i fiori di Bach non sarebbe stato male.
Senza dubbio Banks è un disco che va digerito, non perché sia complesso ma perché ascoltandolo ci si confonde, è come percorrere un corridoio su cui si affacciano stanze risuonanti di brani da epoche diverse, con un minimo comun denominatore: New York. Persino ‘Lisbon’ sa di tombini fumanti e squallidi bilocali del Village, e ‘Arise, awake’, con il suo andamento quasi trip-hop, rimanda a Doris Day e ai successi di Tin Pan Alley nel ritornello. Protagonisti sono i suoni casuali, i rumori cittadini che affiorano nei momenti più calmi, cosa che rende sensata l’immagine di copertina e il suo devasto urbano. Ma il fatto che valga il discorso “bisogna-ascoltarlo-più-di-una-volta-per-apprezzarlo” non vuol dire che sia un capolavoro: la sintesi di arpeggi inquietanti e ritmica cattiva è sempre molto suggestiva, ma ha perso incisività. Il tema dei testi oscilla tra la paranoia dell’esistere nella massa e il peso di un tradimento subito, con l’eccezione di ‘Young again’ in cui Banks si lamenta del tempo e del lavoro come qualsiasi comune mortale sui cinquant’anni; il tutto cantato con la sua voce di sempre, riconoscibile come poche.
Ad essere irriconoscibile è Banks stesso nelle immagini del documentario realizzato da Noisey in cui indossa un cappellino da baseball da vero ragazzaccio di strada, circondato da personaggi piuttosto trucidi. Il prossimo passo verso la rottura del velo sarebbe salire sul palco così insieme agli Interpol, ma chissà.