Naomi Punk – The Feeling

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Ascoltare un disco dei Naomi Punk tutto d’un fiato è un’esperienza che non lascia sensazioni estatiche o spiacevoli, ma solo un’eco frastornante che si propaga con piglio ostinato nella calotta cranica, unita ad uno strano bisogno compulsivo di pigiare play daccapo e rinnovare il massacro sistematico e consapevole delle tue sinapsi. Accasatisi sotto la rinomata scuderia Captured Tracks e approdati al secondo album con questo The Feeling, i nostri eroi dimostrano di condividere pienamente la malcelata tendenza di numerosi  compagni d’etichetta (Soft Moon e Mac de Marco in primis) a rilanciare dopo un’opportuna opera di svecchiamento chirurgico generi sbalzati fuori dalle classifiche da tempo più o meno immemorabile.

Di che genere stiamo parlando? A giudicare dalla provenienza geografica, ovvero Seattle, verrebbe da pensare istantaneamente al grunge anni ’90, ma la questione diviene più dubbia man mano che si viene sballottati da un brano all’altro. Certo, ci sono passaggi in cui sembra di percepire la stessa ruvidezza dei Mudhoney, imputridita però da un’attitudine sludge che appartiene più al repertorio dei Melvins; di fatto, per via d’un certosino lavoro di produzione e delle linee melodiche accattivanti, l’ascolto risulta così dannatamente catchy, perfino pop in certi passaggi, da scacciar via ogni sentore di claustrofobia connaturato all’estremismo dei gruppi succitati.

The Feeling è monolitico nei suoi spartani 35 minuti di durata eppure mai asfissiante; i brani, compressi in un formato che non oltrepassa i 5 minuti di durata, sono un susseguirsi d’implosioni sferraglianti (grazie ad un crash onnipresente e suonato con garbo pachidermico) e deflagrazioni irresistibilmente melodiche, all’insegna d’uno spirito apatico, autodistruttivo e sarcastico che ossequia sia quello del punk rock d’annata (senza ricalcarne gli stilemi sonori) sia quello di certo psych-garage californiano di recente uscita.

L’ascolto fila “scorrevolissimo” (sempre che siate tra quelli che godono nel prendere a capocciate campane e gong tibetani) tra i falsetti e le abrasioni a passo di panzer della title track (una ballad talmente deturpata da essere irriconoscibile) e la rocciosità sguaiata e  torrenziale dell’opener Voodoo Trust. Un paio d’assoluti highlight spiccano fin da subito rispetto all’apparente omogeneità generale:  la sconquassante Burned Body (qualcosa di simile ad un branco d’ippopotami imbottiti di stricnina intento a pogare in un pantano equatoriale) e la fantastica, sin dal titolo, Trashworld (introdotta da un arpeggio zuppo di nerissima e sgocciolante melma proto-grunge e propulsa da un ritornello che parrebbe quasi bubblegum se non fosse tellurizzato dai sussulti al vetriolo delle chitarre e inacidito da coretti lisergici degni di Ty Segall). Discorso a parte per i 3 episodi strumentali (su 9 brani complessivi), che lasciano trasparire quelle che sono le perversioni sperimentali del gruppo: senza scomodare l’abusatissimo, spesso a sproposito, termine “shoegaze”, si può dire che nella loro malinconia catatonica (CLS + Death Junket) o nell’abbozzare progressioni ascendenti e dilatate ( Gentle Movement Toward Sensual Liberation ), questi brevi acquerelli psichedelici attecchiscono morbosamente in qualche binario morto del cervello, tanto da insinuarsi in memoria fin dal primo ascolto.