Ty Segall Band – Slaughterhouse

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Ty Segall, pestifero tardo-adolescente dalle precocissime e multiformi esperienze discografiche, è solo l’ultimo filibustiere ad arrembare una scena underground, quella di san francisco, sempre più prodiga di act e album incendiari. Forte del suo retroterra selvaggiamente lo-fi, il nostro eroe continua imperterrito a spargere alla rinfusa fiotti di creatività degenerata, dando sfoggio d’un’attitudine parodistica\autoreferenziale ed uno stacanovismo produttivo innegabilmente ereditati dai padri putativi Thee Oh Sees (con i quali condivide, a questo giro, l’accasamento sotto l’ottima etichetta “In the Red”). Slaughterhouse, ottava incisione in meno di un lustro, presenta poche affinità stilistiche sia con i deliqui psichedelici del recentissimo “Hair”, frutto della collaborazione con White Fence aka Tim Presley, sia con l’ultimo lavoro 100% Ty Segall “Goodbye Bread” (2011).

Laddove il suddetto ammiccava alla corrente Merseybeat ed ai Beatles, al punto da assurgere a suo personalissimo White Album, la nuova impennata impressa al sound fa pensare piuttosto ad un rifacimento in salsa vintage di “Kick Out the Jams” o “Raw Power”.

Scordatevi le lunghe e allucinate escursioni siderali del recentissimo “Carrion Crawler\The Dream” dei fratelli maggiori\dirimpettai The oh Sees: Slaughterhouse ha sempre le membra sanguinanti e sferzate dalla polvere, mantiene i piedi ben artigliati all’asfalto rovente e talvolta si inabissa a capofitto nel magma più viscoso e corrosivo. L’adrenalica cover “Diddy Wah Diddy” di Bo Diddley, registrata quasi in presa diretta come d’altronde tutto il resto dell’album, è il manifesto ideale del nuovo corso e forse dell’intera carriera del buon segall (il quale alla fine, in piena estasi febbrile, grugnisce “fuck this fucking song!”, per poi chiosare divertito “i don’t know what we are doing!”).

Bastano i feedback lancinanti ed il riffing granitico e catatonico, quasi stoner, dell’opener “Death”, per intuire che si’, probabilmente ci si trova di fronte a nient’altro che l’ennesimo disco di garage californiano al vetriolo; ma il tutto suona talmente gustoso e groovish che si è troppo indaffarati a dimenarsi e scapocciare per puntare il dito indispettiti. Il tessuto sonoro, già asprigno e caotico di suo, viene ulteriormente sfilacciato da esalazioni fuzz e assoli fulminei che hanno lo stesso effetto d’un ceffone al culmine d’una sbronza colossale.  “The Tongue” e “Wave Goodbye” incedono sui cingoli malfermi e rugginosi che furono dei Pussy Galore e dei (compagni d’etichetta) Boss Hog, dopo averli oliati con la stessa attitudine pop urticante e demenziale dei Black Lips. Tell Me What’s Inside Your Heart”, coi suoi falsetti sornioni propulsi da un ritmo sfrenato e ballabile, è il pezzo più accattivante del lotto.

“Oh Mary” conficca una scheggia psychobilly nelle viscere punk in metastasi dei Cramps. Il resto segue in modo più o meno omogeneo le coordinate tracciate finora: rantoli e psicosi post-punk (Scratch Acid), detroit sound (Mc5), proto-hardcore (Germs), garage primitivo (Troggs e Sonics).

L’unica anomalia è la lunghissima, didascalica “Fuzz Wars”, stucchevole improvvisazione free-form troppo compiaciuta e furbetta e sopratutto troppo aliena al resto del platter per destare qualche interesse duraturo.

In definitiva è un bel disco, questo slaughterhouse, da consigliare senza riserve se siete dei raver ad alta propensione alcolica o dei cultori del neo-revivalismo garage a stelle e strisce senza troppe pretese; in caso contrario, se cercate qualcosa di ben piantato nel passato ma intelligentemente proteso verso l’avvenire del genere, vi consiglio di recuperare il già citato Carrion Crawler\The Dream dei Thee oh Sees, di gran lunga più compiuto e maturo nel deformare, rielaborare e cucire fra loro retaggi vecchi e nuovi, sofisticati e viscerali.