[ATT.NE SPOILER!] Una storia di rimandi e riflessi quella dei Mogwai con la Settima Arte, col mondo della cinepresa e più in generale con la cultura dell’immagine. Immerse nella fitta coltre ora chitarristica (del post-hardcore) ora – sottilmente – elettronica (dei remixes), le atmosfere rarefatte dei padrini del post-rock, le lunghe suite che caratterizzano il sentire del “rock dopo il rock” (privato tanto degli stilemi d’immediatezza quanto dei barocchismi), da sempre diventano medium perfetto per evocare immagini interiori, film registrati in presa diretta dalla coscienza d’ognuno. Musica altamente visionaria, insomma, atta a suggerire piuttosto che a dettare, proiettandosi nell’imbuto infinito e soggettivo della percezione sensoriale.
Non stupisce dunque la volontà di confronto dei cinque di Glasgow con la macchina da presa, dopo la sonorizzazione del docu-film “Zidane: a 21st Century Portrait” datata 2006, occasione curiosa per accostare le composizioni della band scozzese alle movenze in campo del Pallone d’Oro francese. Ma a cavallo tra il 2012 ed il 2013 i “pittori del post-rock” hanno spostato la propria tavolozza in direzioni diverse…
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Post-rock, post-mortem
Quest’anno, dopo la pubblicazione del nuovo lavoro di remixes “A Wrechted Vinyl Lore” – rivisitazioni elettroniche delle turbe rock contenute nel precedente “Hardcore will never die but you will” -, i Mogwai si tuffano in una nuova esperienza cinematica: la colonna sonora della prima stagione della serie tv francese “Les Revenants”, creata da Fabrice Gobert e adattamento del film omonimo diretto da Robin Campillo (datato 2004).
Tradotta in inglese come “Rebound” (volendo parafrasare direttamente dal francese “coloro che ritornano”), la nuova serie televisiva viene inserita nel filone “horror”, andando di fatto ad incastonarsi tra il thriller a tinte psicologiche e il mistery drama dai risvolti macabri.
Definito dallo stesso Cummings – leader e portavoce dei Mogwai – come una “Twin Peaks, Twilight, Zombie kind of thing”, il serial mira effettivamente a porsi come trait d’union di queste tre esperienze cinematografiche: impossibile sfiorare l’asticella di intrigo-occulto fissata magistralmente da David Lynch con Twin Peaks, possibile invece enfatizzare i punti di forza delle altre due rivelazioni “cult” più recenti, smorzando il patetismo tutto adolescenziale della Twilight Saga e affrontando da un altro punto di vista le dinamiche inter-personali dei massacri zombie di The Walking Dead (principale rivale al quale è lanciato il guanto di sfida in prima serata).
Come si sono i mossi i Mogwai nel terreno insidioso e ambiguo di Les Revenants? Sostanzialmente a modo loro, decidendo tanto per iniziare, di trascendere il linguaggio del rock, a loro storicamente più congeniale. Anche nei casi di violenza manifesta, nello svolgersi di azioni tumultuose, la band decide di non sfruttare gli idiomi (rumorosi) della chitarra rock, ma di lasciare lo spettatore in balia principalmente della potenza delle immagini, dell’indicibile e l’inenarrabile, attraverso scelte più “soft” ma non per questo meno angoscianti. “L’heavy rock nei film horror/d’azione è un cult, ma talvolta personalmente l’ho trovato esagerato ai limiti del ridicolo, noi volevamo mantenere il coefficiente rock al minimo indispensabile”, ha dichiarato Cumming.
Una tendenza all’ermetismo, diametralmente opposta tanto ai ricami progressive dei fasti Argentianitargati Goblin-Simonetti quanto ai 90’s tamarri e fracassoni del nu-metal portato sullo schermo dai vari Korn, Slipknot, Marilyn Manson (incarnati sia sul palco che alla regia dalla controversa figura di Rob Zombie).
Il disco: pittura chiaroscurale
Due sessions di registrazione (una per i primi quattro episodi, una seconda per le altre puntate) che regalano una colonna sonora che diventa disco a tutti gli effetti nello zibaldone targato Mogwai. Le tracce, esattamente come le immagini, vivono di una atmosfera chiaroscurale: un po’ come nella sigla iniziale della serie, pare di percorrere una strada – anzi di attraversare una città – con illuminazione precaria, pronta a lasciare l’intero paesaggio nell’oscurità. “Hungry Face” coi suoi rintocchi di xilofono che lasciano il passo al pianoforte e agli archi, è sublime nell’introdurre l’ascoltatore/spettatore nell’asettico villaggio alpino che fa da sfondo alla vicenda: rigoglioso ed ovattato nella lussureggiante distesa verdeggiante quanto vagamente tetro e dispersivo nel suo apparire “hi-tech” ed efficiente. I lievi ricami pianistici la fanno da padroni anche in “Whiskey Time” e “Jaguar” (che pare un piccolo “tell tale heart” poeiano di percussioni: è il battito del cuore che torna, dilatato, a pompare nel petto deirevenantes? O i passi decisi del ritorno a casa dopo qualcosa che non si riesce a mettere a fuoco, come in un sogno? Intanto arrivano le vampate d’archi (“Special N”), le melodie sbilenche che ricordano gli enigmi dei Bark Psychosis (“Kill Jester”) e i riff pacatamente scomposti che rimandano ai padrini Slint (The Huts”); il quasi shoegaze macabro di “Portugal” traghetta all’unico pezzo cantato del lotto – “What are they doing heavy” – liturgia folk à la Low Anthem. “Wizard Motor” poi, è tedio esistenziale mogwaiano al 100%, con la chitarra a macinare feedback, a dettare ogni finale di puntata in distorsione.
Un disco che indubbiamente faticherà ad affrancarsi dalle immagini ma che d’altra parte assolve egregiamente il suo compito di – non-invasiva ma estensiva – sonorizzazione degli sconvolgimenti post-umani della serie.
Precisiamo che nel caso di Les Revenant ci troviamo di fronte ad una realise tutto sommato “underground”, che dalla realtà europea (piccola se paragonata ai colossal made in U.S.A.) prova a conquistare il mercato americano. Ambiziosa quanto (ancora) outsider: ardita e in sintonia col mood dell’operazione dunque la scelta di chiamare in sala di registrazione una band non così nota al grande pubblico ma testa di serie nel suo genere.
La “canonica” struttura mogwaiana loud-quiet-loud nota ai fan è tradita, in favore di una costante (ed estenuante) calma apparente, frutto (stavolta sì) dell’usuale modus operandi dei Mogwai nel quale hanno spesso convissuto feedback assassini e soavi contrappunti pianistici (provate ad ascoltare “A cherry wave with stranded youngsters”). Il filo conduttore è la malinconia: da sempre avviluppata nelle composizioni dei Nostri, la malinconia è anche sentimento dominante nell’intrecciarsi delle storie dei “revenantes”, nel quale ora proviamo ad addentrarci in punta di piedi.
“Coloro che ritornano”, ritornano alla vita, dopo essere morti: un tema che comunemente definiremmo “zombie”, con tutto l’immaginario che questo termine universale porta con sé, viene in questo caso sviluppato in una maniera assai particolare e per molti versi inedita. Gli zombie di Les Revenants stravolgono la concezione di mutazione e decomposizione fisica che li ha resi iconici dai capolavori di George Romero in poi, facendo loro assumere tratti distintivi – lentezza nei movimenti e di pensiero, voracità irrazionale in chiave di cannibalismo al contrario e soddisfacimento dei bisogni primari – che di fatto li assimilavano a bestie primordiali costantemente affamate. Qui, non solo i “morti” non hanno perso le proprie capacità cognitive ma neppure la propria memoria (escludendo le modalità di morte), inoltre, non si configurano come orripilanti cariatidi disumane ma mantengono intatte tutte le caratteristiche fisiche che possedevano prima del momento del decesso. Essi sembrerebbero più assimilabili a fantasmi, fornendo margini di sviluppo in ottica di ghost story, ma sono tuttavia perfettamente tangibili e possono interagire col mondo circostante. Alcuni hanno il fascino tenebroso caro all’ultima generazioni di vampires stories, ma senza imbrattarlo di malizia teen. Tutte queste ambiguità rendono peculiare ed interessante uno svolgimento di per sé molto lento, basato in larga misura sul travaglio psicologico dei personaggi su un duplice livello: coloro che ritornano certo (che all’inizio non sanno di essere morti) , ma anche coloro che “subiscono” questo ritorno, magari dopo anni bui passati a metabolizzare il lutto. Quello che sulla carta sembra un avvenimento festoso, realisticamente diventa qualcosa tanto spiazzante da non suscitare reazioni univoche e prive di conflitti, anzi, fautore di una serie di situazioni e reazioni ora kafkiane ora pirandelliane: in Les Revenantes convivono tanto le atmosfere stranianti che caratterizzavano “Il Processo” o “La Metamorfosi” quanto i turbamenti esistenziali che Pirandello dirige ne “Il Fu Mattia Pascal”. Passando per omicidi efferati e complesse dinamiche familiari, si arriva alla diatriba teologica: sono state le preghiere delle famiglie a portare indietro i compianti? Cosa implica accettare questo “miracolo”?
E soprattutto, cosa hanno in comune tra di loro les revenants?