Andrea Appino – Testamento

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A dire questa parola, si immaginano notai che ticchettano sulla scrivania penne d’oro 24k. Ma gli archi di Rodrigo d’Erasmo in apertura ci dicono che non è un requiem, e che l’album è di un Appino che conosciamo al 60%.  Più vive che mai, pulsanti nelle arterie, le “ultime volontà” di cui Appino si fa attore e convenuto, partono dal centro delle emozioni e viaggiano verso le periferie più diverse. E vanno. E ogni arteria, per giungere a destinazione, segue una strada sua. Quella imprescindibile e puramente busking degli Zen, quella del cantautorato italiano epico figlio degli anni 70 e quella del pop e dell’hard rock che si intrecciano a influenze di altri tipi.

L’inquieto pisano è uscito da una zona conosciuta e collaudata e si è avventurato in un progetto dall’immaginario purpureo. D’altronde non è l’unico Zen a desiderare di sperimentare nuovi percorsi: è infatti uscito a gennaio 2013 Morte a credito, primo album del progetto La Notte dei Lunghi Coltelli di Karim Qqru, dove storia e passato sono veicolati dall’electro-hardcore. Appino parte invece dal versante melodico per poi distaccarsene, e poi riprenderlo. Si  concentra su temi a lui (e non solo a lui) vicinissimi: la socialità in generale (la famiglia in cui sei nato e la famiglia che ti farai), il proprio ego, la schizofrenia e la coralità del dover dividere ciò che di un proprio parente è rimasto (ndr), per un totale di 14 tracce dallo stile compositivo variegato sia per testi che per arrangiamenti.

Alcune delle liriche si annoverano tra le più suggestive che Appino abbia mai scritto, impreziosite da una parte strumentale forte della collaborazione di Giulio Favero (anche co-produttore, in molti pezzi sembra più Giulio degli One Dimensional Man piuttosto che Giulio del Teatro degli Orrori), del martellante Franz Valente, di Rodrigo d’Erasmo ai violini, Marina Rei, e molti altri.

Indubbia gemma poetica del disco è la title track Il testamento (dedicata a Monicelli), dalle sonorità, delicatezza e capacità espressive sorprendenti. L’arteria hard rock del disco vanta basso pulsante e suoni taglienti, carichi di elettricità, chitarre graffianti e intensità tali che a tratti potrebbero ricordare certi CSI: da non perdere la ninna nanna al contrario Che il lupo cattivo vegli su di te, Specchio dell’anima, il rock duro e spigoloso di Solo gli stronzi muoiono e Schizofrenia, esperimento espressivo devastante, scatenato hardcore che si apre con arpeggi e sonorità alla Morricone, per poi evolvere in qualcosa di più complesso. Dalle atmosfere più pop sono Fuoco!e Passaporto, che esplode in una tensione elettrica finale unita a morbidi violini. E poi le ballate nello stile Appino e Zen Circus propriamente dette, come La festa della liberazione, ballata acustica con sfumature folk dedicata alla libertà, Fiume padre, rock che ammicca ai pezzi migliori degli Zen Circus e Tre ponti, dall’affascinante eco anni 60. Pecca del disco è risultare forse troppo denso e con una sperimentazione non sempre gradevole all’ascolto. Ma in fondo si tratta di un approccio coerente con l’impronta di quell’Appino vestito di irrequietezza, munito di penna cinica e amara, e dallo stile inconfondibile nel raccontare storie. Atteggiamento che cela un grande amore per la vita. Altro che testamento.

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