ATTITUDINE E VISUAL: Facenti parte del filone: “Illustri sconosciuti che aspetti da una vita”, delle “Due dame” ve ne parlai ad inizio estate, quando ‘Nightshade’ – QUI trovate la recensione – gettò un fumoso manto sulfureo sulla bella stagione, con buona pace dei consumatori di hit tratte dalle réclame sponsorizzanti le varie compagnie telefoniche. Un salmo Post-Punk nero come la pece, personale colonna sonora del vissuto estivo e prima irrinunciabile opzione alla domanda “Che concerto vorresti vedere, adesso?”. La location è da sogno: qualche scalino di Palazzo Re Enzo ed alzando gli occhi t’immagini saloni spaziosi e luminarie barocche tinte di neon, qualcosa tra Eyes wide Shut e un club di Soho, scoprendo solo in seguito di aver descritto effettivamente Sala del Podestà, con l’aggiunta di trenta metri di bar sponsorizzato Forest (La birra). Il maxi schermo già da qualche minuto annuncia l’imminente comparsa del duo Americano, il cuore batte forte, diciamo per quindici minuti, poi il tempo passa e le birre aumentano insieme alla preoccupazione. Un’ora d’attesa sull’orario d’inizio ci può stare se poi scateni l’inferno, non certamente se fai quindici minuti di mantra minimal-dark, accantonando bellamente tutto l’album d’esordio – Eccezion fatta per Interlude -, ed eclissandoti fra lo stupore di una nutrita cerchia di adepti che nel frattempo si era radunata. C’è da dire però che sono fighissimi: lei totally black in tacchi a spillo, alterna chitarra e tastiere con la grazia di chi sta suonando in un dormitorio, mentre lui e la sua Keyboard la affrontano di spalle, entrambi consci di non esserne all’altezza. Tutto accompagnato da proiezioni in sincro raffiguranti intermittenti samurai in bianco/nero dividersi fra scene di combattimento presunto e convivialità casalinga.
AUDIO: Il risultato sarebbe stato lo stesso in uno squat 20×20 di L.A, con la differenza che che non avresti mai potuto dire ai nipotini di aver suonato dentro un sogno.
PUBBLICO: Nella curiosa mescolanza che solo Bologna possiede di norma, emergono figure ben caratterizzate accorse ad hoc, pronte a sventolare creste e pelle lucida, cerone ed eyeliner, cappotti “Matrix” rivisitati sadomaso e stivali neri borchiati “Edward mani di forbice”.
LOCURA: Ci sono questi tipi bizzarri, che amo, sono fuori tempo e spesso fuori luogo, ce n’è uno ad ogni concerto credo ed a volte mi capita di fissarli per interi minuti fregandosene della band. Ieri sera un esemplare di questa specie non faceva altro che ballare, e non sarebbe stato neanche tanto inusuale se non lo facesse con la foga e la mimica di chi trovandosi a Rio in vacanza avesse deciso di partecipare al carnevale ballando direttamente sul carro samba-samba.
MOMENTO MIGLIORE: “Ah si, questa è Interlude, la conosco sta in Nightshade, finalmente partono“. Fine del concerto.
CONCLUSIONI: Prendendola bene potrei raccontarvi di quanto facessero bene lo spritz in quel bar, e di quanto ci siamo prima narcotizzati con Tropic Of Cancer e poi sballati con il grande John Roberts. Fatto sta che oggi mi sento come un alcolizzato a cui hanno fatto fissare la sua bottiglia di stravecchio tutta la notte, senza poterla aprire.