Tiny Ruins – Brightly Painted One

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Tiny Ruins nasce nel 2009 come solo project della cantautrice neozelandese di origini inglesi Hollie Fullbrook, sviluppandosi poi come una vera e propria band grazie all’arrivo del bassista Cass Basil e del batterista Alexander Freer e compiendosi finalmente nell’ottimo debutto “Some Were Meant For Sea” (2011).

Ora è la volta del secondo disco dipinto dai colori colori vivaci, come recita il titolo (“Brightly Painted One”) ma, a dirla tutta, i colori non sono poi così splendenti, quanto piuttosto chiaroscurali. Frutto di tre anni di vicissitudini varie, tra vita on stage tra Europa e Stati Uniti – in un tour che l’ha vista dividere il palco con grandi nomi internazionali come Beach House, Joanna Newson, Fleet Foxes e Calexico – e il lavoro a casa, le relazioni, le riflessioni di tutti i giorni, le canzoni della Fullbrock ne disvelano l’animo inquieto, celato dietro un’apparente linearità e piattezza.

Registrato in un luogo particolarissimo come il “The Lab” di Auckland, città di origine del trio, una specie di labirinto di corridoi sotteranei e piccole stanze, sotto la supervisione dell’ingegnere del suono Tom Healy, il disco a dispetto del primo impatto è il risultato di un certosino lavoro di limature e stratificazioni, in cui l’hammond e il piano rhodes puntellano in delicate trame le canzoni nervose e sussurate della songwriter neozelandese, arricchite ulteriormente dall’innesto di fiati e ottoni. Un disco levigato ma lieve nonostante gli arrangiamenti lussureggianti, dotato di una semplicità sofisticata e curata nei minimi dettagli, in cui a tenere banco sono le darkeggianti sonorità folk-blues stemperate a tratti in atmosfere dreamy per nulla modaiole. Tratto sicuramente caratteristico di Tiny Ruins – per quanto spesso abusato in progetti simili di songwriter donne – è la voce della Fullbrock: sorta di versione femminile e aggiornata di Nick Drake (del quale vi sono evidenti richiami anche musicalmente nel fingerpicking chitarristico) rivisitata in chiave moderna. Inevitabile in questo senso pensare ad altre eroine del folk sghembo degli ultimi anni come Cat Power, Feist o anche Emiliana Torrini, private però della loro venatura più strettamente soul; anche se forse il paragone più appropriato dal punto di vista vocale potrebbe essere quello con un’altra grandissima come Beth Orton, pur non possedendone ancora la marcata personalità.

“Brightly Painted One” è un disco che non colpisce immediatamente, se non altro per la mancanza da un lato di melodie catchy, dall’altro di svolte impreviste o deviazioni sperimentali. Ciò nonostante la sensazione che ne ricaviamo alla lunga è quella di un insieme convincente di acquarelli malinconici e seducenti, in alcuni casi assolutamente sublimi (Reasonable Man, White Sheet Lighting, Jamie Blue) in altri persino accattivanti, come nella canzone di apertura Me at the Museum, You in The Wintergarden. Un viaggio altalenante fra aperture ariose e discese sinistre nel mondo di un’ottima autrice quale si rivela anche in questo caso Hollie Fullbrook.

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