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27 Ottobre 2014 | capturedtracks |
0:00 Non ho idea di cosa mi aspetti. In che guaio mi sarò cacciato? 0:01 Intercettazioni ambientali. Rumori di fondo. Voci. Il suono di uno strumento a fiato? Forse sintetizzato. Un momento catturato. Come un pesce preso all’amo. Una goccia. Nell’oceano sonoro del mondo. 0:08 Un lavandino che perde. O più semplicemente, acqua che scorre. Siamo già nel flusso. 0:25 Toc-toc. Un battere ripetuto, e violento, di strumenti che si accalcano. L’uno sull’altro. In Medias Res c’eravamo fin dall’inizio. Fin dal silenzio. In principio era la fine. Rumore e furore tutto il resto. Il sogno di un sogno.
La pillola dei Medicine appare, insieme agli Slowdive, fra le prescrizioni del Dottor Araki, nella colonna sonora di “Doom Generation“. Toc-Toc. Knockin’ on Nowhere’s door. 0:48 Cambio di marcia, e di (de)cadenza. Irrompe il canto di una donna, a metà fra Lush e Breeders. Il Synth sale subito in cattedra. All’Università degli Agenti di Disturbo. 2:08 Primo piano sulla tastiera. Un accordo, con basso discendente, sembra anticipare sviluppi più ordinari. 2:24 Di nuovo Toc-Toc. Chi è? È il Signor Caos, quello di prima. Quello di sempre. 2:50 È come se ogni micro-sezione esposta finora confluisse, di colpo, nel medesimo concerto. 3:50 Non siamo a Rio. Ma il ritmo ci trapianta sulle strade di un Carnevale più importante. Quello in cui tutte le convenzioni vengono infrante.
Lo Shoegaze ha smesso di fissarsi le scarpe. E avanza fiero. Oltre il precipizio del palco. Al di sotto degli abissi, le ossa di una pop-song. Sfigurata, amputata, e ricucita come Frankenstein. Bassi distorti. Riverberi corali. Contrappunti sparsi lungo il paesaggio pentagrammato. 7:24 Dopo un breve incipit, piovono chitarre dalle mani della cara, e sanguinosa, Valentina. 7:53 Gocce di Medicina in mare. Si trasformano in piovre. L’indie-rock fra i tentacoli. Segue un assolo della sei corde. Appena un accenno. 10:05 Affiora una cavalcata country, presto sommersa. 11:10 Bassi afflitti da petomania. Reminiscenze in Reverse. Senso di nausea. Ritmica inframmezzata. Da repentine digressioni. Come se la via principale non fosse già una digressione. 14:31 Il gioco continua. Con indosso maschere psichedeliche. Per una danza hippie attorno al fuoco della creazione. Fra un Synth formato Jingle, e un eccesso, a tratti stucchevole, di melodismo anni ‘60.15:53 Intervallo per più voci. In un bagno di effetti. Oltre ad aver incamerato Brian Eno, Frank Zappa e le avanguardie nel sistema nervoso centrale, i Medicine sembrano aver trascorso interi anni a fare Zapping nella tv psichica di Genesis P. Orridge. 17:47 Silenzio brusco. Poi scampanate di batteria, in ripresa amatoriale. 18:17 Can che abbaia e che morde. Un pezzo vecchio stile turbato da inquietudini Fugaziane a corda singola.
La fase onirica è alle porte. Di nuovo silenzio. Home Everywhere. I Beatles più lisergici portati all’estremo. La medicina si chiama L.S.D. E Lucy si sente a casa ovunque vada. Nell’alto dei cieli. Nel ventre degli abissi. A cavallo di un diamante, di una piovra, o di una tigre. 22:44 Saettanti distorsioni noise. Direttamente dalle manopole di un synth. Rumore bianco. È lui, forse, la vera sintesi di tutto. 23:30 Riflettori puntati su un pianoforte, mentre intorno infuria la tempesta. 24:29 Una folata percussiva trascina la materia informe verso l’ennesima, effimera, riconciliazione. 25:33 Non c’è tregua. Un Mi cantino scordato nella cantina ubriaca dei bassi, dove la batteria inciampa a zig-zag. 30:21 “If you don’t believe”. Quasi un mantra ossessivo, di cui mi sfugge l’apodosi. Intanto segno. 33:04 La confusione regna. Che dietro questo marasma free-form, impossibile da analizzare, ci sia la volontà di essere ancora l’Uno? Dagli abissi risaliamo fino al Mar delle Blatte. Dagli altoparlanti di una nave fuoriesce jazz in chiave d’allucinazione. 35:13 Il Paradiso. Voci femminili che somigliano a carezze sospese nel blu. Just an illusion. 36:30 Un mostro musicale, dalle movenze Hip-Hop, e dalle urla babeliche, spazza via l’estasi di poco fa. 38:00 L’ultima litania sfuma in un macchinario inquietante. Poi il rumore, rapido, ci abbandona. 41:30 Fuori dal buio, un chiacchiericcio d’uccelli. Fine della registrazione.
Di riffa o di raffa, questo disco è destinato a dividere. Alcuni lo troveranno un’accozzaglia di spunti senza costrutto. Altri un lussureggiante concentrato di idee. La verità, come al solito, non sta nel mezzo. Qui non c’è spazio per il revival. Solo il Gioco e la Libertà hanno diritto di cittadinanza. E se il gioco è una cosa dannatamente seria, questo disco non è da meno. Perché dietro il nonsense e il divertimento selvaggio c’è un discorso che mina dalle fondamenta quell’orrida prigione in cui alla musica viene applicato il T.S.O: Tradizione. Semplificazione. Omologazione. L’apparente follia dei Medicine mette in dubbio tutto questo. E pensa bene di andare oltre. Fra accostamenti arditi e colpi di scena continui, quello che viene realizzato è un sentito e commovente omaggio all’arte di produrre musica, a cui non assegno il massimo delle saette solo perché sono sicuro che i Medicine possano rivoluzionarsi ancora. “Home Everywhere” è un disco che difficilmente sarà riproducibile in sede live. Inutile parlare di titoli e di canzoni, quando è lo stesso concetto di brano ad essere sbranato. Un disco al di fuori delle strutture. Se ne sentiva davvero la mancanza.
[schema type=”review” name=”Medicine – Home Everywhere” author=”Marco Valerio” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]