Benjamin Clementine – At Least For Now

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Un uomo, londinese, profondamente influenzato da un’esperienza di sopravvivenza nella capitale francese, e dolorosi addii alle spalle: pochi anni e già così tante cose da condividere proprio lì, su un esagitato pianoforte – luogo musicale nel quale le migliori esistenze hanno potuto confrontarsi, adagiando nuovi suoni su nuove parole -, dove al primo tocco d’un tasto bianco un’intera narrazione sembra prendere vita; il luogo della battaglia per Benjamin Clementine. E se spesso si può parlare di una musica per sottrazione, la prima cosa ad andare verso un lento diminuendo è la vita stessa del nostro cantautore: nato per ritrovarsi a vagabondare, accompagnato dalla più nobile letteratura: Blake, T.S. Eliot e Carol Ann Duffy; ma quelli sulla carta sono amici di solitudini, null’altro.

Ben diverse sono le muse musicali che hanno costellato il suo percorso: Erik Satie (influenza non di certo nuova nella musica popolare: si pensi sopratutto ai Japan), Antony Hegarty e Nina Simone: e si ritrovano tutti e tre in questo debutto, ognuno in configurazioni differenti; rivisitati da una mente moderna e autodidatta, che ha imparato a ricomporre il proprio puzzle astrale facendosi guidare dalla creatività. Dove molti sentono nel cantato e nell’uso del pianoforte un richiamo ininterrotto a Nina Simone, per quanto ci riguarda, da questa è stata ripresa per lo più l’intimità lirica: la vita di un’Io e delle sue mille esperienze. Il cantato è molto più instabile, ballerino, giusto il timbro potrebbe avvicinarli. E sentiamo sopratutto – in questa comunione stilistica – di riferirci alla Simone che pubblicava con l’RCA, presente in forma pura in Gone, traccia conclusiva del disco; e rivisitata altrove con degli arrangiamenti alla Woodkid (Winston Churchill’s Boy su tutte). Del resto quest’ultimo – secondo grande rappresentante della scena barocca francese – lascia che i suoi concerti vengano aperti dal ventiseienne Clementine. Più che Simone, comunque, Hegarty sembra essere l’elemento costante: lì dove questo, in un qualche universo musicale parallelo, si incontra con i Blind Boys of Alabama, accompagnato al piano – figura d’eccezione – da Soap & Skin che reinterpreta Satie.

Quella voce così cupa, morbida, tenorile, in grado di modellarsi su ogni emozione, in grado di tirar fuori quanto più è possibile dalle singole parole, è esattamente la caratteristica che fa incontrare i due cantautori: Antony e Benjamin, sebbene il primo si mantenga sempre su melodie e cantati maggiormente onirici e il secondo canti di un sé, desolato come la terra della quale leggeva, mantenendo però – sorprendentemente – sempre un tono speranzoso. 

C’è una canzone – non inserita in questo album – che porta il nome di I Won’t Complain, nella quale si scrive così:

There is hope, theres is hope, somewhere there is hope.

Though my good days are far gone,

They will surely come back one morn,

So I won’t, I won’t complain.

Tutta questa speranza condiva invece molto diversamente Hope There’s Someone di Antony and the Johnsons, pezzo che diede il via all’ispirazione del nostro cantautore dalle origini ghanesi: la speranza di Antony è astratta, indeterminata, acronica; quella di Benjamin è fin troppo radicata nella sua stessa vita. Del resto Hegarty è l’uomo che si è prefissato l’obiettivo di rappresentare l’indeterminatezza: è egli stesso un essere astratto, inesistente; possente, ma dalla voce angelica; presente, ma sempre al di sopra di ogni Terra. Quella di Antony è una vita puntata al futuro, sottolineata da quel toccante e sottinteso leitmotiv, ovvero one day I’ll grow up (in For Today I Am A Boy); per Benjamin il futuro invece è un terreno arido, che solo i piaceri passati possono far germogliare, come si canta in Condolence, in un nulla che sa di tutto:

Then out of nothing,

Out of absolutely nothing,

I Benjamin,

I was born.

So that when I become someone one day,

I always remember,

I came from nothing.

E se possiamo permettercelo – proprio in questa mancanza di vite vissute, ma solo immaginate, cantante, al massimo (com)piante – vogliamo sottolineare una grande differenza tra i due. Benjamin deve ancora scoprire quello che v’è dietro e davanti la sofferenza, deve superare il terreno, astrarre quanto più possibile da quell’imponente Io che lo circonda. Egli è un poeta, poeta però che ha vissuto unicamente per se stesso e con se stesso, configurando così una sorta di mancanza di prospettive poetiche. Questo non lo pone, ad ogni modo, in una posizione svantaggiata rispetto ad altri; perché in questo At Least for Now stranamente, il nostro londinese riesce in una qualche maniera a raggiungere un’umanità intera con le sue ballate da piano bar: uno dei suoi tanti modi per guadagnarsi qualcosa da vivere. Il passo per l’astrazione rimane comunque necessario per un’evoluzione futura, e lui, lettore di Eliot, lo sa molto bene: La poesia (…) non è espressione della personalità, ma un’evasione dalla personalità. È naturale, però, che solo chi ha personalità e sentimenti sappia che cosa significhi volerne evadere; si legge in The Sacred Wood.

Adios insegue Hitler In My Heart, il pianoforte si fa sempre più ansimante; la voce gioca con l’aria in Nemesis, il ritornello, un movimento epico lo bacia; i bassi si alternano in Cornerstone: il brano fondamentale, movimento irripetibile, che sa tanto d’uno sperato ritorno ad un’imprecisa Itaca, dove quel ripetuto Home assume, smorzato dalle grosse labbra color malva di Benjamin, l’aspetto d’un appena sospirato Hope. Il luogo narrato assume funzione catartica, chiudendosi in una rasserenata, sebbene spettrale, conclusione: And this is the place I now know I belong.

Che quest’anima errante, donchisciottesca, abbia trovato un suo luogo di pace immateriale, illusoria? Vista da un tale finale sospeso, incompleto, la narrazione esistenziale ci porta a concludere questa recensione con i versi del maestro Fossati, e ce li immaginiamo cantati da Clementine (del resto se apprezza Lucio Dalla, forse anche il cantautore genovese può trovare un posto nel suo cuore) in questo suo passaggio fondamentale:

Giro nel mio deserto e sto tranquillo,

ho solo il vento per barriera.

Ah, che cavaliere triste,

in realtà avevo dato il cuore

alla luna,

e la luna l’ho barattata col temporale,

e il temporale con un tempo ancor meno normale,

e il tempo stesso con una spada

che mi accompagnasse

fuori dei confini di quello che è reale.

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