Colapesce – Egomostro

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“Negli ultimi tre anni sono stato in giro con lo Zaino Protonico a raccogliere i mostri, come i protagonisti di Ghostbusters. Li ho imprigionati dentro il mio hard disk, ma a un certo punto ho deciso di liberarli tutti insieme e non è stato per niente facile gestirli”

C’eravamo lasciati ascoltando il suo piccolo gioiello d’esordio, Un Meraviglioso Declino – L’analisi dal punto di vista di un neolaureato/neodisoccupato alla ricerca di un posto nel mondo, capace di fare incetta di premi e consensi, tra cui anche una Targa Tenco come miglior opera prima Ndr – ci ritroviamo dopo tre anni con Egomostro. Tre anni così descritti da un Lorenzo Urciullo (vero nome di questo trentenne siracusano con alle spalle una lunga militanza negli Albano Power) a caccia di mostri: quelli generati da un “io” ipertrofico, il suo, e forse anche il nostro: quello dei nostri tempi.

“Egomostro” con questo titolo e con il singolo che l’ha preceduto a dicembre “Maledetti Italiani” lasciava intendere una serie di componenti più marcatamente collettive e di riferimento sociale, poi sconfessate dall’approccio introspettivo del cantautore siciliano. Una propensione verso tematiche personali, intimiste, già abbozzata nell’esordio e qui sviscerata grazie ad un taglio più razionale, lucido.

Cos’è cambiato? Non moltissimo in realtà; Colapesce continua ad essere il cantautore dalla voce soffusa e pacata, che non intona i versi se non a modo suo – uno così in un talent farebbe di certo una brutta fine Ndr – ma che è stato capace di creare uno stile e un’impronta davvero personali. Colapesce come l’avete conosciuto in passato lo ritroverete anche qui; nella sua voce, ma anche nei suoi testi che, per quanto mutati nei contenuti – più affilati e carichi, “pesanti” verrebbe da dire – rimangono fedeli al passato per ciò che ne concerne la costruzione. Periodi brevi, ritmiche dilatate, cura dei dettagli, centralità dei singoli termini.

Una cura dei testi che trova perfetto approdo nella musica, altro suo tratto caratteristico e marchio di fabbrica che ci aveva stregati già con il precedente lavoro. Quella sua capacità, quasi miracolosa per il nostro paese, di raccogliere suggestioni esterofile innestandole al cantautorato Italiano “con la chitarra in mano”.  Se in “Un Meraviglioso Declino” era l’America con la sue chitarre dilatate alla Fleet Foxes a farla da padrone, in “Egomostro” di quelle derive rimane ben poco, a vantaggio di un suono robotico e volutamente prodotto da macchine. Questo è il modo in cui Lorenzo ha voluto rappresentare l’Egomostro, simboleggiato da una copertina un po’ kitsch in cui campeggia una statuina in 3D di se stesso su campo rosa, il colore della vanità per eccellenza. Come a dire: “eccomi qui, vinto dal mostro, guardatemi” ma anche “l’ho conosciuto abbastanza per poterci giocare, fare autoironia e raccontarvelo a modo mio”.

Il modo in cui ha scelto di dipengercelo, come dicevamo, è stato quello di consegnarsi totalmente a sonorità più elettroniche e sintetiche, complice anche la co-produzione di Mario Conte, musicista e arrangiatore molto apprezzato per il suoi lavori con Meg e nel campo dell’elettronica sperimentale. La scelta che non ne condiziona la rappresentazione,  – attraverso una serie di pesi e contrappesi e un lavoro di sottrazione ed arrangiamenti Ndr – piuttosto ne esalta il calore e l’umanità. Egomostro è un disco dalle sonorità rotonde e mediterranee, capace di riportare alla mente Battiato e Giuni Russo: quel modo garbato di dosare i suoni sintetici rendendoli pop ma allo stesso tempo sofisticati. Un disco dalle melodie azzeccate e mai banali, capace di cresce ascolto dopo ascolto, e dotato di potenziali piccoli grandi classici della canzone italiana.

Prendete un pezzo come “Le Vacanze Intelligenti”: dimostrazione di come si possa cantare l’amore senza mai nominarlo, senza doverne raccontare i patemi, tratteggiando le sensazioni di un immaginario weekend d’amore passato alla Biennale di Venezia:

“non sono un critico però so valutare/quando sto bene/quando sto male”

Questa, una delle tante frasi disseminate qua e là, che da sole varrebbero l’ascolto dell’intero lavoro. Sì, quelle frasi che tanto piacciono ai naviganti da social, fatte apposta per essere copia-incollate in status facebookiani e che fanno subito pensare alle “furbata” (d’altronde l’autoanalisi autoironica che percorre tutto il disco gli fa dire “E ti vesto per la sera/apri amore all’Egomostro/con un altro slogan di grande effetto”). In verità Colapesce non ne abusa, ma le utilizza in maniera intelligente inserendole in un contesto generale in cui le liriche hanno davvero perso quel carattere “emozionale” dell’esordio per trasformarsi in piccoli macigni che non renderanno il disco facilmente digeribile ai meno attenti.

In più, la stessa voce di Lorenzo è spesso quasi completamente annegata dalla musica. Segnale chiaro da consegnare a chi vorrebbe la parola come protagonista indiscussa. Ci sono poi altre perle che vanno sempre nella stessa direzione come “Brezsny” e “Egomostro”, tutte canzoni caratterizzate da una propensione al pop sintetico e bislacco, così seducente e dal sapore un po’ retrò. Come succede in “Dopo il Diluvio”, episodio fra i più riusciti e dipanato mediante un approccio quasi filosofico e quindi infelice. “L’Altra Guancia” ci conduce in uno spazio-tempo dilatatissimo alla Mazzy Star, dove ancora una volta è l’amore la tematica inevitabile per sconfiggere i mostri generati dall’ego. Approdo naturale di un viaggio poco confortevole in cui l’io ci ha catapultati, per poi gettarci in balia delle acque agitate e insicure del microsuccesso.

Ripensandoci non è stato poi così male aver rinunciato a questo “io” in cambio di una relazione appagante (“come si sta bene con te/valeva la pena sgonfiare il nostro io/per un onesto noi”), aver rinunciato all’indagine su di sè e sugli altri (“Amare basta e lo faccio a testa alta/Non serve l’ipnosi regressiva/Non serve un mago è solo la vita”) per abbracciare la semplicità del quotidiano. Si vola sempre abbastanza in alto con questo secondo disco di Colapesce e il bilancio non può che essere positivo. C’è forse un po’ troppa maniera che in certi episodi finisce per appesantire il discorso, ma il tenore del lavoro si mantiene sempre su livelli egregi. Colapesce conferma di avere una spiccata personalità e grande talento, e se riuscirà nel tempo a sbrigliarlo dall’egomostro e dalle aspettative ansiogene che esso porta con sè, non potremo far altro che ringraziarlo. Se poi questo non è un difetto incidentale del disco, ma esattamente il suo intento finale, c’è riuscito benissimo.