Django Django – Born Under Saturn

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I Django Django stanno in un’area dai confini relativamente definiti che va dagli Everything Everything agli Alt-J, ai Bombay Bicycle Club, passando per i Dutch Uncles. Spingendosi un po’ agli estremi, ci potremmo poi mettere anche i Wild Beasts. Se non è proprio una scena è comunque quel mondo arty e ispiratissimo che sta ridefinendo il Pop del Regno Unito e che, come si nota, annovera per lo più band che da “cose nuove” stanno diventando faccende più consuete.

E quale sarebbe, tra tutte queste, lo specifico dei Django Django? Forse, come espresso superbamente nel vecchio singolo “Default” il loro tratto sta nella capacità di applicare un taglio sintetico a strutture pop psichedeliche e marchiare il tutto con una obliqua impronta Folk. E la magia vale anche per questo secondo album. Magari Born Under Saturn non avrà la nomination al Mercury Prize, come fu nel 2012 per il debutto omonimo, ma conserva inalterati i tassi di divertimento, leggerezza e inventiva, alzando persino lo standard compositivo a dei livelli che non erano stati ancora raggiunti. Oltre a “First Light”, che se la disputa serenamente nel campionato dei migliori singoli di questo 2015 già al giro di boa, spiccano gli episodi più dilatati: quelli in cui si accavallano i ritornelli in coro, il riferimento ai numi Talking Heads, l’attitudine intellettualmente weirda e poi giù di sintetizzatori. “Vibrations” e “Shot Down“, appaiate anche in tracklist, sono valide rappresentanti di questo versante.

Magari ai primi ascolti rapidi pare assente un vero corrispettivo di “Default” ma poi ci s’imbatte in “Reflections“: tutta un’altra canzone, sì, ma con la stessa dose di euforica compostezza, la chitarrina western, i cori che sono dei mantra, gli indiani che fanno festa insieme ai cowboys. Sembra di essere in quella scena di “Fratello dove sei?” in cui Clooney e Turturro, con le barbe finte, in un’America arcaica e magica, fanno uno dei balli più idioti ed epici della storia del cinema.