Olga Bell – Incitation

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Entriamo nel piccolo mondo di Olga Bell. Ci entriamo in punta di piedi. Anzi, per fare meno rumore, lasciamo le scarpe fuori. Dovessimo svegliare qualcuno. C’ero già stato qui, qualche tempo fa. Ma prima era diverso. Adesso vi spiego perché. Olga Balashova (classe 1983), in arte Olga Bell, è quella che molti definirebbero “una musicista versatile”– e nessuno può metterlo in dubbio. Basta dare un’occhiata al suo curriculum.

Miss Bell ne ha fatta di gavetta: fra lezioni di piano, dischi autoprodotti e collaborazioni. Addirittura il suo album d’esordio, dal titolo “Krai“, è stato accolto dalla critica come un’opera potente, innovativa, originale. E poi due anni di tour coi Dirty Projectors, ad occuparsi di voci e tastiere. In soldoni, tanta esperienza e duro lavoro. Una carriera, quella di Olga, votata alla musa del canto e all’elettronica di un certo livello, senza per questo disdegnare altre influenze. Sa il fatto suo Olga, è brava. Magari un tantino algida. Sarà perché è nata in Russia e cresciuta in Alaska. Ma queste sono considerazioni del tutto avventizie, che lasciano il tempo che trovano.

Incitation“, questo il titolo dell’Ep, riprende il discorso lasciato in sospeso, quasi due anni fa, dal sorprendente “Krai“. Anzi no, purtroppo. Perché ne apre un altro. Molto meno interessante. Infatti, se l’esordio si presentava come un dolente concept pluri-sfaccettato, in cui era lecito aspettarsi tutto e il contrario di tutto, fra folklore e anti-folklore, passando così, senza soluzione di continuità, dalla glitch alla samba, dal kraut all’inno russo, in un impetuoso, caotico, ma riuscitissimo vorticare di stili che aveva nelle pulsazioni elettroniche il solo, fragilissimo, punto d’appoggio, qui invece, come strategia di mercato, si è optato per il sonnifero per cavalli – griffato Bjork. E mi riferisco alla Bjork più compiaciuta, più ripiegata sui suoi cliché minimalisti. La Bjork che si ripete senza più la fantasia degli albori, o poco oltre.

Cinque canzoni in tutto. Due singoli, la title track e “Goalie“, uno più noioso dell’altro. Forse solo “Rubbernecker”, la seconda traccia, trova un bell’equilibrio fra intimismo e fruibilità melodica, obiettivo ultimo del disco. Per il resto, un freddo e schematico depliant di elettronica da supermercato. Un supermercato d’elite, intendiamoci. Con annessa rassegna di vuoti, vuoti, micropulsazioni, ancora vuoti, e spifferi, sussurri, modulazioni graduali. Così fino al refrain. Dispiace perché il retrogusto è quello di un’occasione sprecata. Dispiace perché, neanche due anni prima, l’avvio era stato fulminante. Dispiace perché, anche se è solo un E.P, getta una luce sinistra, una luce conformista, sul futuro di Olga Bell, che pare aver rinunciato alla propria autenticità in cambio di un più comodo, e soporifero, soggiorno nei panni del famigerato elfo islandese. In questo senso la copertina ci viene incontro, immortalando Olga mentre spicca un salto all’indietro. E il suolo sotto di lei è crepato. Che sia un presagio di sventura? L’oracolo questo non ce lo dice.

Riassumendo, se il primo album rasentava il capolavoro, suggerendoci l’immagine fuori fuoco, eppur vitale, di una matrioska dimessa, smontata, sviscerata, simbolo del distacco di tanti figli, o anche di una sola figlia, dalla terra d’origine, questo nuovo lavoro, inspiegabilmente, scende dal palco della diaspora per salire su quello del “Tale & Quale Show”.