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28/01/2016 | westbury road | rihannanow |
Avrei dovuto recensire il nuovo, e chiacchieratissimo, disco di Rihanna. L’ottavo della sua carriera. Ma non ce l’ho fatta, a causa dei pregiudizi che nutro verso la musica mainstream. E dunque, anche stavolta, ho lasciato che fosse il mio amico Marco Palomba ad occuparsi del lavoro sporco. Buona lettura.
La recensione di “Anti” di Rihanna, a cura di Marco Palomba.
Io questa cosa non me la spiego. Che Rihanna fosse avanti una cifra, lei o chi per lei, vedi alla voce produttori, s’era capito già da un pezzo. Ma tipo che s’era capito quasi dall’inizio. Da quando aveva aperto l’ombrello. Adesso, invece, si stupiscono tutti. E solo perché stavolta ha fatto il disco storto.
No, dico, ve la ricordate “Umbrella-ella-ella-eh-eh”? Ma stiamo scherzando? Era tipo il miglior brano pop degli ultimi tre-quattro secoli. Che tipo la sentivi e te la cantavi di continuo, ma proprio non-stop. Per farvi capire, io andavo a spasso col pandino insieme all’amico mio Manuel, e quando beccavamo una pischella a passeggio, specie vicino Piazza Fiume, abbassavamo il finestrino e gli urlavamo: “Ah bella-ella-ella-eh-eh!”. Proprio come nel brano. E quella poi, regolarmente, ci rispondeva col gesto dell’ombrello. E noi allora sfrecciavamo via contenti, a cavallo del nostro pandino, convinti di essere dei super-fantasisti della cultura pop, e non due liceali ripetenti e morti di fica. Bei tempi comunque.
Poi, purtroppo, sono arrivati i Vanilla Sky, con la loro cover presuntuosa per la serie: “sembriamo i Finley ma vorremmo essere i Jimmy Eat World”. E hanno rovinato tutto. Ma tipo che dopo non l’abbiamo cantata più. Mai più. A proposito, che fine hanno fatto i Vanilla Sky?
A dire il vero, non è che questo “Anti” sia storto più di tanto. Nel senso che il precedente “Unapologetic” era già storto di suo. E quindi il nuovo disco non è altro che l’erede naturale di una stirpe oramai destinata alla stortaggine dance. Perché i tempi della colonna sonora di “The Full Monty” sono belli che bolliti, e se alle feste ti azzardi a mettere su “Il Triangolo” di Renato Zero, improvvisando una danza sfrenata, dettata più che altro dall’alcol, nessuno ti si fila. Balli da solo e basta. Però, nostalgie a parte, c’è da dire che “Anti” è proprio un disco sghicio, ossia un disco cool, un disco che non ti fa vergognare di ascoltare il pop, esatto, quel genere musicale che da almeno quindici anni in Italia significa: “Ragazzo/a che canta una cover ad Amici di Maria”.
L’ho fatto sentire al mio amico Manuel, e lui già alla seconda traccia, che per la cronaca s’intitola “James Joint” (cioè, hai vinto), mi ha detto: “Questo pezzo è una bomba, pare un’odissea di un minuto nella musica soul, e c’ho come l’impressione che in sottofondo abbiano campionato qualcosa dei Weather Report. O forse è solo la canna che mi son fumato?”. A quel punto, ho guardato Manuel col rispetto che si deve ad un oracolo, inebriato dai riferimenti colti, espliciti ed impliciti, presenti nella sua frase. Ma poi ho ribattuto: “A me invece ricorda le colonne sonore che Terence Blanchard componeva per Spike Lee. Ricordi “Jungle Fever”? E poi la sigla che campeggiava sempre sulle opere del maestro, “A Spike Lee Joint”. Torna tutto, no?”. Per un attimo ci siamo sentiti dei super-esegeti della cultura pop, e non due trentenni disoccupati, fuoricorso, e sempre morti di fica.
Mezz’ora dopo che il disco era apparso in rete, la critica aveva già detto tutto e il contrario di tutto. Per alcuni un disco caruccio, ma povero di ritornelli. Per altri una boiata pazzesca. Per altri ancora un capolavoro inaspettato. Io e Manuel, di tutto ciò, ce ne siamo sbattuti altamente. E ci siamo abbandonati al flusso. L’unica nota stonata, se proprio dobbiamo dirlo, è stata il singolo “Work”, quello dove Rihanna canta con un certo Drake, e infatti quando è partito a cantare questo Drake volevamo tipo lanciare l’autoradio nel Tevere. Ma per fortuna, a parte quest’episodio, l’album non ne ha mai sbagliata una. Due parole per descriverlo? Un viaggio notturno che si snoda sinuoso fra ritmi hip-hop, ma coi bpm tenuti a briglia corta, echi di cinema score alla Lana Del Rey, electro-soul da hit parade (“Kiss it better”), numeri marpioni che farebbero la gioia di qualsiasi strip-club (“Desperado”). E poi, come se non bastasse: dissonanze esibite con prepotenza (“Woo”), una ballata per voce e chitarra che non ti ammorba le orecchie (“Never ending”), e perfino una cover dei Tame Impala (“Same ol’ mistakes”, rifatta praticamente identica, ma col titolo ritoccato, infatti l’originale s’intitola “New person same old mistakes”. Boh, questa non l’ho proprio capita).
Ma su tutto svetta la voce di Rihanna, a suo agio con qualunque registro. Che rappi, che abbozzi uno spoken-word, che sussurri, che intoni un acuto, che graffi, non importa. Il bersaglio lo centra sempre. E sul versante interpretativo si limita a fare il suo dovere, accompagnandoci nel flusso, e concedendosi giusto qualche tuffo al cuore, qui e là.
È vero che forse manca un pezzo fomentante come “Phresh out the runway”, che intamarrava d’immenso la tracklist di “Unapologetic”, e poco ci mancava che sostituisse “Freestyler” dei Bomfunk MC’s nella mia playlist di Santo Stefano. Ma non si può avere tutto.
In breve, è andata a finire che io e Manuel ce lo siamo sentito eccome il disco di Rihanna, chiusi nel pandino, proprio come una volta. E quando è arrivato il colpo di grazia, ovvero la piano-ballad “Close to you”, ci siamo quasi commossi. Ma tipo che non sentivamo una canzone così romantica da anni. Più o meno dai tempi di “I’m with you” di Avril Lavigne. Poi però ci siamo immaginati la concorrente di un talent show che la rifaceva al pianoforte, e c’è salita subito la paranoia.
Quando cazzo usciremo dai nostri luoghi comuni? Quando usciremo dal nostro immaginario telecomandato? Ci siamo chiesti più o meno questo. Intanto siamo usciti dal pandino, contenti che Rihanna avesse realizzato un gran disco. Fuori faceva freddo, ma tutto sommato si stava bene.