Steve Jobs di Danny Boyle

steve-jobs-movie-poster-800px-800x1259-copy-kOEH-U10603185920677z3C-700x394@LaStampa.it
Parentesi semiseria prima di addentrarci nella recensione. Comunque sia andata con Steve Jobs, un plauso a Danny Boyle e allo sceneggiatore Aaron Sorkin per aver rinunciato all’impianto dell’opera a tesi(na) – scopiazzata in fretta e furia dai vari bignamini di comodo e da comodino – che è stato l’instant movie Jobs (2013) di Joshua Michael Stern. Nel senso che per fortuna ci si è dimenticati “all’istante” dell’immagine dello spaesato Ashton Kutcher a spasso a piedi nudi per il campus (e dire che Sorkin è lo stesso che fa deambulare l’imberbe Zuckerberg per Harvard in ciabatte da doccia). Lì, oltre l’equazione eccentrico = genio senza alcun bilanciamento – Jobs troppo avanti nella sua vision per preoccuparsi di indossare scarpe come un comune mortale – davvero poco altro (qualche mistica scintilla rivelatrice sul destino del mondo partorita sotto LSD, in posa da guru, in India o in garage). Altro plauso ai due per non aver ribadito oltre il mantra “Stay hungry, stay foolish”, che a questo punto, sdoganato imp(r)udentemente in qualunque contesto, banalizzato da ogni aspirante self made man in cerca di una spinta motivazionale verso il top, potrebbe stare appiccicato veramente dappertutto: nelle hall delle grandi corporation come sul lunotto posteriore dell’auto, nell’ufficio del broker che assalta la borsa o nei tag di chi cerca semplicemente stimoli per andare in palestra, sui depliant di Scientology o negli annunci amorosi di chi rilancia il vigore nella terza età. Per fare un esempio, se la materia fosse finita tra le mani di uno Spielberg in vena di retorica, ci saremmo certamente trovati di fronte un Jobs autorevolmente commosso alla Lincoln, preso a recitare il dogma parlando solennemnente alla platea, ponendo fine alla schiavitù del walkman con in sovrimpressione migliaia di lumicini accesi dai vari Pod, Phone e Pad, justice for all, apps e mobile per tutti.

Fatte le premesse e le divagazioni, torniamo seri e affrontiamo Steve Jobs. Non potendo che cominciare dall’inizio, da quel filmato d’archivio che è già un monito per la narrazione a venire. Si parte “da” 2001, non “dal” 2001 (come l’incipit del film con Kutcher sul meeting di Cupertino nell’immediato post-11 settembre, con la presentazione del primo I-Pod). Dal 2001 visionario di Arthur C. Clarke e Kubrick, da un’odissea della conoscenza, da un paradigma a cui tendere, da una filosofia della storia in atto, non da una semplice cronologia degli eventi conclusi. Da una suggestiva visione profetica lanciata – come il mitologico osso-astronave, come il martello rivoluzionario dello spot Apple 1984 – dal passato in un futuro che ancora deve veder nascere, crescere e svilupparsi i suoi superuomini della tecnica.

È quindi il cinema-genesi di 2001 che viene assunto non solo come modello di riferimento, ma come vero e proprio deus ex machina, grande medium di proiezione dell’umanità nello scenario tecnologizzato del ventunesimo secolo, per seguirne le tappe sull’asse del sistema binario uomo-macchina/individuo-società. In questa progressione ciclica, il Jobs di Boyle interviene a intervalli regolari come uno step nel continuum della rivoluzione informatica, una curvatura nello spazio-tempo della memoria, un’interruzione di corrente che produce un “salto” in avanti, uno standby o una ricaduta all’indietro, come la cesura di un raccordo o di un taglio sulla materia filmica in scorrimento. Per questo la struttura narrativa in tre atti – con in mezzo la parentesi in montaggio alternato del confronto Jobs-Sculley, in controcampi tra presente e passato – più che per panel esplicativi e slides biografiche in funzione (di)mostrativa (il lato più magnetico e seducente, “di massa”, di Jobs, praticamente nascosto dietro le quinte) procede per ellissi, scatti e stadi evolutivi che intercettano il momento storico nel quale Jobs si trova al cospetto del “monolito” tecnologico di turno (il Macintosh prima, il Black Cube della Next poi, l’I-Mac infine).

Stalli e fasi di riprogettazione industriale che il perfetto congegno narrativo di Sorkin sovrappone e fa corrispondere all’“implementazione”, all’“aggiornamento” dei rapporti che Jobs negozia con la figlia Lisa, inizialmente disconosciuta. Ogni ripensamento e cambio d’approccio nella concezione e nella messa a punto del Pc sembra parallelamente replicare un cambiamento, una revisione nelle relazioni tra Steve e sua figlia, in una perfetta sovrascrittura del rapporto uomo-macchina sulla dialettica padre-figlia. Lisa, nome della ragazza e acronimo tecnicistico di un sistema operativo, è la metafora polisemica più evidente, che segna i continui oscillamenti dalla coincidenza alla programmazione, dall’automatismo alla volontà che sembrano regolare il funzionamento degli uomini come delle macchine. Ed è proprio Lisa a traghettare il padre da una “versione” all’altra della sua parabola umana e imprenditoriale. Tracciandone il percorso nei puntini da unire nella linea vettoriale disegnata con MacPaint (un “abstract”, un’altra visione). E in seguito nei travelling della camera che la segue a spalle mentre perlustra i corridoi e il backstage dell’Opera House, sintetizzando il percorso e i passaggi dell’avventura di Jobs che titoli e voci di cinegiornali alla Quarto Potere elencano in voice over.

Jobs “performa” e si perfeziona al pari del prodotto che tenta di lanciare sul mercato in ogni decade. Nel 1984 è una scatola chiusa, ottuso e impenetrabile circuito end-to-end come il suo Macintosh. Entrambi macchine celibi, fredde, incompatibili proprio quando dovrebbero porsi come interfacce user-friendly, predisposte alla connessione, ad aprire “porte” alla comunicazione, riuscendo invece a malapena a dire “Ciao” con voce robotica glaciale e sinistra (come quella di HAL 9000 di 2001 che inquieta la Hoffmann), o a mandare affanculo in loop.

Se il Mac è immune alle penetrazioni esterne (i multi-slot che Wozniak vorrebbe infilare), hardware da contemplazione dipinto in una teca inviolabile (in aperta cotraddizione con l’estestica touch che lo stesso Jobs contribuerà a rendere dominante), Jobs “funziona” con lo stesso linguaggio asettico e computato che gli consente di disincarnarsi dal ruolo affettivo di padre. Riformulando la sessualità in un algoritmo che lo esclude come variabile indipendente dai rapporti umani. E forse in questa negazione della paternità e della filiazione diretta sta la ripetizione dell’errore di sistema, il bug dell’orfano rifiutato che deve essere scelto che ricade sulla nuova generazione.

Quando si arriva a Next e al Black Cube (1994), siamo alla fase intermedia, alla mediazione. Il pc è ancora una “macchina senza motore”, Jobs ancora non integra completamente la figlia nel suo “sistema” affettivo, ma si smussano e si arrotondano gli angoli del case mentre si ammorbidiscono e si approfondiscono le relazioni (non a caso è proprio Lisa ad occuparsi diligentemente delle misurazioni). Infine, arrivati al 1998 dell’I-Mac costumerizzato e di un Jobs finalmente flessibile e aperto ai feedback, Lisa si configura come portatrice delle istanze di sharing e delle urgenze di comunicazione del contemporaneo, portando il padre all’ultimo, decisivo salto verso quell’I-pod che manderà in pensione l’ingombrante Walkman. Ma il 2001 è ancora lontano, non è ancora arrivato laddove Steve Jobs sceglie di fermarsi, sfocando l’ultimo stadio – per ora – dell’evoluzione. Perché non si tratta di aspettare impazientemente il futuro, il momento di compressione del massimo tecnologico nel minimo tempo. È una questione di percezione emotiva, di valore aggiunto dal sentimento patemico, di affettività riversata sulle persone e sulle cose che queste persone – i figli della tecnica e i nativi digitali – conserveranno tra le loro mani. La percezione. Una tara che appartiene all’uomo da sempre. Una variabile umana che si pone al di fuori dei limiti imposti dal momento storico in cui ci è dato vivere, su cui lo stesso Jobs deve ammettere di non avere controllo. Rimane l’arco teso dalla speranza, la visione – ancora – offerta dal cineocchio di 2001, l’astronave lanciata e sospesa nell’aria. Non importa quando potremmo pilotarla, quanto tempo ci vorrà. L’importante è capire che i passeggeri di business e quelli di seconda classe atterranno nello stesso momento, nello stesso posto. Jobs non sapeva piantare un chiodo, ma questo l’aveva capito da subito.