Iggy Pop – Post Pop Depression

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David Bowie se n’è andato da poco. Lou (Reed) nel 2013. Ed Iggy si riscopre orfano sulla soglia dei 69. Pensa di farla finita col mondo della musica e riflette sull’uscita di scena migliore. Qualcosa che lo ricongiunga con lo spirito Berlinese di David e Lou, che ne rinvenga l’essenza perduta. Forse per nostalgia, più probabilmente perché non si è mai sentito vivo come in tour col Duca Bianco – quello che precedette l’uscita dello strepitoso “The Idiot“.

Ed è proprio a questo punto che si rivelerà fruttuoso l’incontro con un fan di lunga data, Joshua Michael Homme. L’uomo del deserto – Kyuss, Q.O.T.S.A, Them Crooked Vultures, Eagles Of Death Metal –, nel frattempo è diventato un produttore stimato, al netto di un ego a dir poco smisurato: che spesso finisce per ripercuotersi sulle sue produzioni – ricordate “Humbug” degli Arctic Monkeys? Con Iggy però è diverso.

Non è dato sapere se per rispetto o per via del fatto che il nostro Joshua si trova al cospetto di un vero calibro da novanta, ma questa volta il suo tocco risulta a dir poco felpato, ma presente. Lo troviamo nella compattezza granitica dei giri di basso che sorreggono tutta “American Valhalla“, in certi passaggi blueseggianti di “In The Lobby” e segnatamente nella gestione senza sbavature delle componenti di un disco, che alla luce dei fatti svela la sua importanza. Recluta Dean Fertita (Q.O.T.S.A, Dead Weather) alle tastiere, Matt Helders (Arctic Monkeys) alla Batteria, e allerta Van Leeuwen (Q.O.T.S.A) e Matt Sweeny (Chavez) per le date live. Poi porta Iggy nel deserto a registrare.

L’iguana, dopo gli ultimi episodi solisti – i non brillantissimi Preliminaires (2009) e Après (2012) –, con questo “Post Pop Depression“, proprio come accadde per la genesi del sopracitato “The Idiot” – quando Bowie lo portò a registrare in un castello convertito a studio nei pressi di Parigi, poco dopo le dimissioni del nostro dal reparto di psichiatria –, sembra risorgere sorretto dall’anima di quel Bowie unico essere umano capace di scendere a patti (artistici) con la belva, col forgotten boy. Lo stesso ragazzo dimenticato che andò fuori di testa per la trilogia berlinese (di Bowie), e che oggi ritroviamo oscuramente baritono, propio come alla fine dei seventies.