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29 Aprile 2016 | Sham | Jayhawksofficial.com | ![]() |
I feel like it’s so out-of-fashion that maybe it’s in fashion now. The structure, the scale, the chord progressions I write — they all feel like they’re out of time with what’s “now,” but that’s not gonna keep me from doing music like this (Gary Louris)
Essere i Jayhawks ad inizio anni Novanta, in piena esplosione dell’era grunge e delle rotazioni musicali da MTV non deve essere stato facile: nascere in una città come Minneapolis, attraversata dagli incendiari furori hardcore punk di band fondamentali come Husker Du e Replacements, passare per la mitica Twin/Tone di Peter Jesperson e voler ostinatamente far rivivere il mito di Gram Parsons con quel suo sogno di scardinare le barriere fra due mondi distanti come rock’n’roll e country, deve averli fatti passare quantomeno per dei freak anacronistici e fuori di testa. Essere ancora e nonostante tutto i Jayhawks nel 2016, in anni in cui semplicemente persino le chitarre vengono considerate “out”, e continuare orgogliosamente per la propria strada ha del commovente, ma è anche così dolcemente rassicurante quanto può esserlo tornare in un luogo dell’infanzia e ritrovarlo esattamente com’era.
Allo stesso modo, essere una che nel 2016 sceglie di ascoltarsi il nuovo disco dei Jayhawks per raccontarlo sulle pagine di una webzine indipendente italiana nell’anno di grazia in cui nella so called “scena indie italiana” esplode la mania per Calcutta e per i Thegiornalisti, dà l’esatta misura di quanto tu sia tremendamente e irrimediabilmente condannata ad essere uncool. E invece, proprio mentre inizi a raccogliere informazioni qua e là per poter fare al meglio il tuo lavoro, finisci per imbatterti in un curioso fenomeno che si sta scatenando nel canale YouTube della band: un mucchio di gente commenta “I’m here because of Lana”. Lana??!? Sì, avete capito bene: i fan di Lana Del Rey ascoltano i Jayhawks. Anzi, ancora di più: Lana Del Rey – una che tutto potremmo definire, fuorché uncool – ascolta i Jayhawks, e gli regala un pesantissimo endorsement attraverso il suo canale Instagram.
Loro, i Jayhawks, ringraziano manco fosse un 9 su Pitchfork e non si può fare a meno di chiedersi a cosa servano ancora oggi, nell’era degli endorsement sui social network, le recensioni. Eppure questo disco, il nono per la band americana, c’è proprio il bisogno di raccontarlo, perché racchiude in sé un mucchio di storie. Innanzitutto, quella infinita fra Gary Louris e Mark Olson, ancora una volta arrivati a una rottura dopo l’album del 2011 Mockingbird Time che li aveva visti riuniti dopo secoli (Tomorrow The Green Grass, l’ultimo disco dell’era Olson era datato 1995) e nonostante nel frattempo avessero persino messo su un altro progetto assieme, Ready for the Flood. Ma i Jayhwaks, a dispetto delle rimostranze di Olson e delle promesse di Louris a non portarli più avanti senza di lui, non solo continuano ad esistere ma sfornano addirittura uno dei loro dischi più belli, degno dei tempi d’oro di Tomorrow The Green Grass. Poi, perché è un disco la cui composizione travagliata ha impegnato diversi anni, frutto anche di un periodo difficile di Louris passato tra una riabilitazione durata due anni e la conseguente voglia di riprendere in mano tutto, anche quella band di cui aveva dubitato nell’ultimo periodo (I always knew the Jayhawks were good, but I didn’t realize how great the band was until we started working on this record, ammette candidamente in una intervista rilasciata a Rolling Stone). E l’ha portata avanti anche senza Olson, la cui mancanza in questo disco non si sente nemmeno tanto quanto avremmo immaginato, complice fors’anche la preziosa co-produzione di Peter Buck (R.E.M.) e di Tucker Martine (Decemberists, My Morning Jacket).
Una storia di riscatto (the start of a brand new adventure) e la voglia di ricominciare a fare ciò cui si è destinati, ciò per cui tutto ha un senso: musica, semplicemente musica bella. La vena compositiva di Louris, alla soglia dei sessant’anni, per fortuna non si è ancora prosciugata e lo dimostra la formidabile apertura di Quiet Corners & Empty Spaces, una canzone che suona come una promessa, un abbraccio caloroso dopo il ritorno a casa, vitale e accecante inno alla musica dei Jayhawks. Quello che arriva dopo è altrettanto sorprendente e al tempo stesso rassicurante, come se gli anni non fossero mai passati per la band del Minnesota: tredici pezzi totali che ti passano nelle orecchie senza mai uno sbadiglio, in quel mix consueto di avvolgenti armonie da west coast e malinconiche schitarrate country da midwest, tutto sapientemente mescolato nella classica ricetta che ha reso i Jayhawks paradigmi viventi di certo raffinato alt-country. Provate a sentire pezzi magistrali come Isabel’s Daughter o The Devil in Her Eyes o anche la più tirata The Dust of Long Dead Stars e finirete per sentirvi risucchiati in un tempo così incredibilmente lontano e familiare, ma che non suona per niente datato . Esattamente come dice Gary Louris, talmente fuori moda da sentirci alla moda, ora; e in tempi di riciclo musicale ossessivo come questi, non ci si può di certo lamentare di poter ascoltare degli originali le cui armi sono ancora così ben affilate.
In definitiva, il ritorno dei Jayhawks dopo l’ennesima rottura fra Gary Louris e Mark Olson ci consegna un lavoro piacevole e raffinato, senza nessuna velleità contemporanea, ma talmente riuscito nel suo essere anacronistico da risultare perfetto per le sue intenzioni: regalarci un altro buon disco dei Jayhawks che suoni esattamente Jayhawks.