Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
1991 | epic | pearljam.com | ![]() |
L’amore furente per un disco pregiudica sicuramente un’esposizione analitica e distaccata, e dopo un instancabile ascolto durato circa 13 anni parlarne diventa quasi come rispondere ad una domanda del tipo: “Vuoi bene alla mamma?”.
Ten rappresenta un geniale spaccato sulla (frustrata) America anni 90. Le donne, conquistata l’emancipazione, crescono i bambini a latte e Ritalin, mentre i mariti spaventati dalle loro mogli in tailleur e 24ore vanno a comprare le sigarette e non tornano più casa. I giovani, che fanno della musica la loro unica ragione di vita, sistemano le scatole negli scaffali dei supermercati sognando un futuro on stage.
La perdita di un amico per overdose di eroina (Andrew Wood) e la fine di un sogno quasi realizzato (Mother Love Bone) si uniscono casualmente all’adolescenza triste e turbolenta di un surfer di San Diego, dando vita ad un progetto fatto di rock, rabbia e camicie di flanella. In linea di massima, lo scenario dovrebbe essere questo e ancora una volta, in una simile indifferenza sociale, si gode del disagio interiore di qualcun altro. Con l’intro fluttuante e sinistra di “Once” e con l’incontenibile impeto Heavy Metal di McCready i Pearl Jam si presentano al mondo intero, proponendo il primo oscuro personaggio di una lunga serie.
Ognuno di essi salta fuori dalla penna dell’allora introverso Eddie Vedder, e ognuno di essi assume un ruolo preciso in quel contesto sociale arido e malato. Serial killer, disadattati, senzatetto e adolescenti incompresi che patiscono quotidianamente la strafottenza dei genitori fino a decidere di spararsi un colpo di pistola in pieno cranio di fronte tutta la classe. Questi gli attori principali, queste le vittime di una frustrazione e di un’insoddisfazione che, nella maggior parte dei pezzi, si concretizza a colpi di un Hard Rock violento e impetuoso o con un trascinante Grunge-Rock melodico dagli effetti ipnotici e seducenti.
Siamo in piena deflagrazione Grunge, ma questo disco distrugge ogni tentativo di standardizzazione. La furia di “Even Flow”, “Why Go”, “Porch”, “Deep”, si combina abilmente alle melodie dei suoi refrain avvelenati e adrenalinici a tal punto da far scoppiare le vene. Il basso timbro di Vedder e la sua “ira funesta” amplificano tutta questa rabbia aggravando in maniera impressionante la potenza dei suoi colleghi, che sembrano quasi sul punto di violentare i propri “arnesi”. La calma apparente e le melodie meno ossessive e graffianti si assaporano con “Black”, forse unico brano dedicato alla sofferenza generata dal sentimento più innocuo in questo contesto: l’amore – o con “Release” che dopo la tempesta chiude l’album con toni lenti e mesti.
Sembrerebbe sia giunta la quiete ma effettivamente non è così, perché dietro quella pacatezza si nasconde una preghiera, una richiesta di liberazione, forse dai fantasmi del passato, forse dal terribile rimorso di non aver saputo in tempo la vera natura della propria esistenza. Non ci sarà mai data un’unica interpretazione realmente attendibile, quello che è certo che quel “release me” raggiunge una profondità tale da turbare l’animo di chiunque lo ascolti.