In un pomeriggio di fine primavera, circondati dalla bellezza e dalla monnezza di Trastevere, abbiamo intervistato i Dade City Days, a poche ore dalla prima data romana della loro storia. La chiacchierata si è svolta presso il Bar Capriotti di Piazza San Cosimato, luogo che compare anche nel videoclip di “Polaroid”, singolo di lancio dell’album “Vhs”, l’esordio della band, uscito su etichetta Swiss Dark Nights (protagonista della scena, come anche di tutto il videoclip, l’attrice Lisa Imperatore: angelo biondo, con lo sguardo malinconico e le unghie smaltate, che prende il cappuccino).
Qualora ve lo stiate chiedendo, i Dade City Days sono tre ragazzi di Bologna, fautori di un’estetica musicale dark e shoegaze. Andy (chitarra e voce), Mara (basso e voce), e Michele (batteria e sequenze). Ma i Dade City Days non sono la “dark band” che ti aspetti. Sono tutto fuorché degli ossessivi lettori di Ritual, tanto per spararne una. Affondano le radici nel prog, nel grunge, e perfino nel pop cantautoriale. Si scannano, amichevolmente, sui rispettivi gusti musicali. Sorridono spesso, malgrado il senso di claustrofobia che si respira in molti dei loro brani, benché sia una claustrofobia ritmata, ballabile, più che andante. Con loro abbiamo parlato di procedure compositive, di scelte sonore, di influenze, di gruppi da scoprire, e di iniziazioni (fra i dischi dei genitori e la Mtv Generation). E abbiamo anche capito in chi si cela l’anima pop e romantica del trio …
Prima di iniziare, vorrei dirvi che oggi su Facebook ho letto il vostro ultimo post, quello dove c’è scritto “A Roma si muore d’amore”…
Mara: Sì, l’ho scritto io. È una citazione da “Cinecittà” dei Baustelle, che sono fra i miei gruppi italiani preferiti. Lo stesso vale per Michele.
C’è una cosa che mi incuriosisce, leggendo i vostri nomi: Andy Harsh Facchini, Mara Gea Birkin, e poi … Michele Testi. Così, asciutto. Come mai, Michele?
Michele: eh lo so, è che non ho mai usato pseudonimi, solo il mio vero nome. Preferisco così.
E voi invece, ragazzi, dove avete pescato i vostri pseudonimi, o soprannomi?
Mara: Il nome “Gea” viene da un fumetto della Bonelli, ma adesso ormai non lo fanno più, mentre “Birkin” ovviamente è un omaggio a Jane Birkin, e comunque usavo questo pseudonimo già da prima, e lo uso tuttora nella mia attività di fotografa.
Andy: ho scelto di chiamarmi “Andy Harsh” mentre lavoravo alla colonna sonora di un horror indipendente, intitolato “Reset”. Volevo usare un nome d’arte per figurare nei titoli, ma non c’è un significato preciso.
Qual è stata la scintilla che ha dato inizio al vostro progetto?
Mara: Noi tre ci conoscevamo già. Frequentavamo le stesse serate in giro per Bologna. Era da tempo che pensavamo di metter su un progetto musicale tutto nostro, anche se allora Andy suonava in un altro gruppo.
Che gruppo era, Andy?
Andy: I Ligeia. Una sorta di “grunge all’italiana”, molto triste. Sulla scia dei primi Verdena.
Mara: anch’io suonicchiavo in altri gruppi, prima di entrare nei Dade City Days.
E tu, Michele?
Michele: Quando li ho conosciuti non suonavo con nessuno. Per la prima volta nella mia vita ero fermo, mi ero stancato. Allora mi son detto: ricomincio solo se trovo qualcosa che mi piace davvero, e se trovo le persone giuste.
E le persone giuste erano Andy e Mara. Quanto al genere?
Michele: sono un batterista, quindi seguo il ritmo che più mi piace. Inoltre volevo suonare un genere che mi consentisse di esplorare territori dark, senza tralasciare lo shoegaze e il dream pop, che sono entrambi generi che amo.
Benissimo. A questo punto vorrei chiedervi: qual è stato il vostro primo innamoramento musicale?
Michele: te ne posso dire due. Il primo risale ai tempi delle elementari, ovvero quando uscì “The Final Countdown” degli Europe. Il secondo invece risale agli anni ’90, quando uscì “Nevermind” dei Nirvana. Da lì, da tutta l’ondata grunge, è nata la voglia di fare casino con la batteria.
Quindi il tuo modello di batterista sarebbe Dave Grohl?
Michele: lui mi piace. Ma non è il mio punto di riferimento, come modo di suonare.
Che invece è?
Michele: anche qui posso farti due nomi. Il primo è Larry Mullen degli u2, che restano per me un gruppo importante.
Scusa Michele, ma penso che Larry Mullen sia uno dei batteristi più noiosi della storia del rock (a questo punto Andy Harsh mi dà il cinque n.d.r).
Michele: ma non è noioso! Ma finitela! Comunque l’altro batterista è Ninja dei Subsonica. Grazie a lui ho riscoperto certe ritmiche un po’ alla Depeche Mode, ma realizzate senza drum-machine. Poi, ora che ci penso, mi piace anche Paul Thomson dei Franz Ferdinand.
Infatti ho l’impressione che spesso tu risolva i ritornelli, a livello ritmico, con un incalzare dance-rock.
Michele: Sì, esatto. Mi piacciono le cose ballabili. Nella anni sono passato da uno stile più noise, per certi versi sovraccarico, al mio modo di suonare odierno, che è più misurato. È stato un lungo processo di sottrazione e rielaborazione.
Scusate, ero partito chiedendo le vostre prime cotte musicali.
Mara: non ti nascondo che alle elementari avevo una tribute-band delle Spice Girls (ma sarà vero? n.d.r). Poi crescendo ho iniziato ad apprezzare artisti come Carmen Consoli, Bluvertigo, e Daniele Silvestri. Oggi suono il basso, ma in realtà nasco chitarrista. Anche grazie a Silvestri. In ambito estero, fra i tanti, sono una fanatica di David Bowie.
Andy: i miei primi amori sono stati i Pink Floyd e i King Crimson, che erano fra i dischi dei miei genitori. Quando ho iniziato a suonare invece, in piena fase adolescenziale, ascoltavo Marilyn Manson, Rob Zombie, Nine Inch Nails …
E i Placebo? Ma lo sai che somigli un po’ a Brian Molko?
Mara: no, i Placebo li odia!
Andy: ok, riconosco che i Placebo sono stati importanti e tutto quanto. Ma è un po’ come quando la gente dopo i concerti ci chiede: “Vi piacciono i Cure, vi piacciono i Joy Division?”. Ci sta, ma mica ci piace solo quello.
Mara: a me e a Michele piacciono. Anche i Placebo.
Bene, vedo che in fatto di gusti è guerra aperta. Ma adesso vorrei chiedervi come nasce, di solito, un brano dei Dade City Days.
Andy: procediamo per filtri. La maggior parte dei pezzi vengono fuori da un riff di chitarra o da una linea vocale. Poi in sala prove ognuno mette il proprio.
Un processo democratico, quindi.
Andy: a volte sì, altre volte meno. Io di norma mi occupo dell’impalcatura dei brani. Però, ad esempio, Mara mi boccia tutte le linee di basso.
Mara, perché gli bocci le linee?
Mara: perché lui va troppo dritto, quadrato, sulle toniche.
Andy: mi piace il basso industrial.
Mara: io preferisco cose un po’ più elaborate. Però non è vero che gli boccio tutte le linee di basso. Su “Benzedrina” ho tenuto la sua.
Stilisticamente, cosa pensate di aver preso dall’Italia e cosa invece dall’estero?
Andy: dall’Italia il cantato in italiano. E basta, credo. Inoltre il nostro è anche un cantato molto poco standard, metricamente parlando. Molto poco pop.
Michele: le linee vocali spesso nascono in inglese, e poi vengono aggiustate in seguito.
A proposito dei testi, Michele è l’autore di “Lurex”, mentre tu Andy?
Andy: guarda, io ne ho scritti solo tre. La maggior parte li ha scritti Mara. Non mi trovo granché a mio agio coi testi. Preferisco concentrarmi sulla parte musicale.
Sempre restando in tema, una cosa che ho notato è che voi, proprio come i Verdena, privilegiate il significante rispetto al significato, o se vogliamo il suono rispetto al senso. È così?
Mara: nascono prima le linee vocali. Il testo è sempre l’ultimo tassello dei nostri pezzi.
Andy: come già saprai, Alberto Ferrari dei Verdena fa prima il cantato in inglese, o in finto inglese, e poi cerca parole in italiano che ricordino il suono che c’era in origine. Più o meno facciamo la stessa cosa.
Invece a livello di effetti e diavolerie varie, come si compone il vostro sound?
Mara: io non ricorro a chissà quali effetti. Uso giusto un po’ di flanger. Qualche volta un po’ di riverbero.
Andy: ho provato a farle usare un distorsore, ma non c’è stato verso. Io personalmente adoro i pedali della Electro-Harmonix. Offrono una varietà di suoni, da pedale a pedale, che non riscontro altrove.
Torniamo alla voce. La vostra è immersa nel missaggio. Da cosa deriva questa scelta?
Andy: deriva in parte da una necessità di rendere il suono più internazionale, e in parte dalla volontà di aderire a una certa estetica shoegaze. Il cantato è quindi un suono come gli altri. Non deve risaltare maggiormente.
Mara: e poi le linee vocali sono molto fluide, proprio per amalgamarsi meglio col suono.
Per quanto riguarda la vostra cultura musicale, vi siete formati leggendo qualche fanzine?
Mara: sì, ma neanche troppo. Certo, anch’io mi son letta i miei Rumore, i miei Blow Up.
Michele: ragazzi, mi dispiace, ma per me esistevano solo Mtv e VideoMusic.
Andy: in compenso, abbiamo un amico edicolante che ci porta i giornali appena esce un articolo su di noi.
Un’altra cosa che mi incuriosisce: la vostra amicizia con i Delenda Noia. Lo chiedo perché ho visto una loro intervista con Red Ronnie e a un certo punto si son messi a parlare di voi.
Michele: sì, noi e i Delenda siamo amici. Ci divertiamo ad andare per concerti tutti assieme. Magari a Bologna attualmente non c’è una scena forte, in senso storico, ma noi abbiamo fraternizzato comunque con vari gruppi. Oltre ai Delenda, siamo molto amici dei Two Moons e dei Caron Dimonio, ad esempio.
Dov’è che oggi, secondo voi, la scena è più viva? Almeno dalle vostre parti.
Andy: oggi non vedo locali di riferimento. Ha anche chiuso lo storico Velvet di Rimini. Qualcosa resiste, nell’ambiente indie, vedi Il Covo. Ma la frammentazione regna.
Com’è il vostro rapporto con l’etichetta Swiss Dark Nights?
Andy: siamo contenti di farne parte, perché è un grosso bacino dell’underground italiano. E la maggior parte dei gruppi nostrani che stanno emergendo all’estero, nel dark e dintorni, vengono tutti da lì. Gente come Ash Code, Hapax, Geometric Vision, Tanks and Tears, Versailles …
Una domanda che in teoria avrei dovuto farvi all’inizio: il vostro nome è un chiaro omaggio alla città di Dade City, dov’è ambientato “Edward mani di forbice”. Che ne pensate di Tim Burton? E quanto conta la settima arte nel vostro universo estetico?
Mara: Tim Burton è un artista unico, ed è sempre una fonte d’ispirazione. Anche se negli ultimi film Johnny Depp è diventato un po’ la caricatura di sé stesso.
Piccola parentesi: in cantina ho ancora “Edward mani di forbice” in formato “Vhs”.
Mara: eh, ce l’abbiamo tutti.
Chiusa parentesi, scusate: torniamo al vostro rapporto col cinema.
Michele: il cinema conta tantissimo nel mio caso, ma anche la letteratura. E per quanto riguarda le liriche che ho scritto il flusso d’immagini mi è stato suggerito, più che dal cinema, dalla lettura di Isabella Santacroce.
Andy: per me, oltre al cinema di Tim Burton, è stato di grande ispirazione un documentario sulla foresta giapponese di Aokigahara, detta anche Jukai, che è conosciuta come “la foresta dei suicidi”. L’ispirazione per il brano omonimo, che è poi il brano che apre “Vhs” (si riferisce proprio a “Jukai”, ndr.) l’ho presa da lì. In particolare mi ha colpito il fatto che queste persone, andando verso la propria fine, lasciassero alle loro spalle un nastro rosso. Lo facevano per ritrovare la strada attraverso la foresta, se all’improvviso avessero cambiato idea. È un’immagine che mi ha toccato nel profondo.
Abbiamo citato “Lurex”, “Benzedrina”, “Jukai”. Ora parliamo un po’ di “Polaroid”, che è il singolo di lancio del vostro album, e a mio parere anche il brano più bello. Ma rappresenta in qualche modo un’eccezione. Voglio dire, si avverte quasi uno scollamento rispetto agli altri.
Andy: inizialmente è stato il pezzo che ci ha messo più in difficoltà, quello che ci convinceva di meno, proprio perché molto diverso dagli altri. A spronarci è stato il nostro produttore Lorenzo Montanà, che ci ha consigliato, almeno in quel brano, di spingerci in una direzione più pop.
Michele: diciamo che è il pezzo più anni ’80 del disco. Eravamo indecisi anche perché c’era un riff di tastiera che sapeva troppo di già sentito. Ad ogni modo è stato fatto un lavoro sui suoni leggermente diverso rispetto agli altri brani della tracklist, ma la mia parte di batteria è rimasta pressoché identica.
Mara: penso che sia il brano più noioso del disco, dopotutto.
Per chiudere, consigliate ai nostri lettori una band italiana, una per ciascuno, che secondo voi merita di essere scoperta, o che comunque meriterebbe più attenzione.
Michele: gli Ash Code. Mi piacevano sul disco e quando li ho ascoltati dal vivo mi sono piaciuti ancora di più.
Andy: i Two Moons, una band estremamente sottovalutata.
Mara: io invece consiglio una band che non ha nulla a che fare col dark, ma più con l’indie-pop: i Verlaine.
Insomma: i Baustelle, e Bowie, e Silvestri, e la Bonelli Editore, e adesso l’indie. Abbiamo capito che Mara è l’anima pop e romantica del gruppo. Un’ ultima cosa però: ci sarà un seguito di “Vhs”?
Andy: certo che ci sarà. Abbiamo molto materiale in cantiere.
Mara: sì, ci stiamo già “scannando” sulla scelta dei pezzi.