PJ Harvey @Teatro Obihall (Firenze) – 24 Ottobre 2016

PJ Harvey
Torna in Italia Polly Jean Harvey a distanza di cinque anni dal tour di Let England Shake e lo fa con due date, una a Milano e l’altra a Firenze; piazzate in giorni non proprio “comodi” come domenica e lunedì, a ribadire che l’Italia rimane una sorta di terra dei “day off” internazionali. Per fortuna il Teatro Obihall è un posto perfetto da raggiungere anche nei giorni feriali, e  possiede una resa sonora tale da poter ospitare  quello che da moltissimi è considerato come uno dei live più belli della stagione.

“The Hope Six Demolition Project”, ideale prosecuzione del precedente disco-concept sulla guerra dedicato alla terra d’Albione – patria dell’autrice rock del Dorset –, prende le mosse dai viaggi attraverso i quali la Harvey, insieme al fotoreporter Seamus Murphy, si è fatta testimone di violenza e sopraffazione – spostando l’obiettivo dalla sua Inghilterra, vista come un simbolo arcaico di imperialismo, verso scenari globali di sfruttamento economico e sociale.

Un paio di dischi che hanno spiazzato i fan della prima ora, legati ad un’immagine dell’autrice inglese maggiormente ruvida e “rock”, che mal hanno digerito questa sua nuova “maschera” da paladina della giustizia/cantore delle miserie del mondo. Una delle tante declinazioni della Harvey, che da sempre gioca con la sua immagine attraversando le diverse sfaccettature della natura umana, fino ad incarnarne quest’ultima, dolente, personificazione da tragediografa greca che sembra indossare i panni di un’amazzone.

pj_rocklab-1

Con una corona di piume a incorniciarle il capo e un corpetto di pelle a cingerle la vita, vestita a lutto come a lutto è addobbato un palco calcato dall’incedere marziale dei dieci musicisti (maschi) che l’accompagnano,  PJ Harvey si conferma autrice circondata da voci maschili. La sua è una voce sempre più bella, impressionante nella sua estensione: specie se paragonata alla sua esile figura. Pj si muove perfettamente fra registri diversissimi – “50ft Queenie” o “The Devil” –, senza mai una sbavatura, senza mai una perdita del controllo. Un copione prestabilito in cui agita le sue sottili braccia biancastre, quasi disegnando trame nell’aria; fungendo da contrasto all’estetica della sua veste funerea, da cui spuntano allo stesso modo le sue gambe da ragazzina cresciuta, senza tempo. Una performer dolente, rabbiosa, che introduce lo spettacolo con la simbolica “Chain Of Keys” in cui si narra di una vecchia donna vestita di nero e delle sue quindici chiavi.

Imagine what
Imagine what her eyes have seen
We ask but she
We ask but she won’t let us in

Attitudine e visual

Uno spettacolo in cui la teatralità è una scelta precisa – l’unica forse,  in grado di garantire una rappresentazione efficace del racconto di cui l’artista fa solo da tramite –, dove il simbolismo possiede un ruolo centrale – non un caso che lo spettacolo inizi proprio con l’immagine di questa misteriosa donna vestita di nero  (“cosa hanno visto i suoi occhi”). In quest’ottica, la rockstar PJ Harvey scompare per lasciare la scena alla rappresentazione delle sue canzoni: non c’è più lei al centro, non c’è il suo ego ingombrante a tenere banco, quello che vorrebbero adorare i fan in platea, e fors’anche proprio per questo non ci sono volutamente interazioni con il pubblico.

Dal ritmo marziale di “Chain Of Keys” può iniziare la rappresentazione di una nuova “maschera” di Polly Jean, spogliata da qualsiasi riferimento personale. Spazio alla narrazione dunque, quella dei suoi ultimi due lavori in studio, qui capace d’incentrare nell’elemento fotografico il proprio punto focale: il tutto è stato ispirato (anche) dalla collaborazione con il fotografo Seamus Murphy durante i viaggi in Kosovo, Afghanistan e Washington. Come fotografie, in cui l’occhio dell’artista è spettatore interessato, così la versione live di “The Hope Six Demolition Project” finisce per dare di se un’interpretazione teatrale. Con tutti i lati negativi del caso (molta parte del pubblico ha lamentato una esagerata freddezza di questo live), ma anche con il distacco necessario di chi sta raccontando una storia che non è la sua – come si specifica nello stesso disco At least, that’s what I’m told”.

pj_rocklab_firenze_241016-2

Audio

La resa sonora del Teatro Obihall è perfetta per uno show – complesso e corale –, che vede la presenza sul palco di dieci musicisti straordinari: fra i quali anche i nostri Enrico Gabrielli e Alessandro “Asso” Stefana.

Pubblico

Pubblico delle grandi occasioni, con la presenza in sala di tanti addetti ai lavori (stampa, promoter etc) e di molte personalità appartenenti al rock indipendente italiano: fra gli altri ad applaudire l’ex compare Enrico Gabrielli vediamo quasi tutti i Mariposa, Marco Parente e un Piero Pelù che cattura subito gli sguardi incuriositi dei presenti. Pubblico in generale morigerato, attento, in qualche caso fanatico, ma tenuto a bada dal tenore pacato di uno spettacolo che non ammette troppi isterismi. Molti i cellulari alzati a cogliere l’unicità del momento, come del resto c’era da aspettarsi per un’eroina del genere.

Locura/Momento migliore

Tenuto conto delle considerazioni pregresse, c’era da aspettarsi una certa staticità d’esecuzione, senza che questo vada ad incidere sul trasporto collettivo: anche se in misura minore rispetto a quanto una platea di fan duri e puri della Harvey potesse desiderare. Il momento di “locura” collettivo si è manifestato alla comparsa dei pezzi risalenti al passato remoto dell’artista, quelli più ruvidi, messi in fila uno dietro l’altro poco prima del bis, ovvero: “50ft Queenie” “Down By The Water” e “To Bring You My Love”. Un maggior trasporto collettivo che però non coincide necessariamente al punto più alto del concerto, che fatichiamo davvero ad individuare visto il livello complessivo della proposta.

pj_rocklab_firenze_241016-4

Conclusioni

Per chi cercava la vecchia Pj – icona di un Rock al femminile sensuale, esplosivo e anticonformista –, probabilmente lo spettacolo andato in scena al Teatro Obihall di Firenze avrà deluso le aspettative.

Un concerto dove la perfezione d’esecuzione, i gesti studiati nei minimi dettagli e una scaletta con ben poche sorprese potrebbe aver destabilizzato il fan della prima ora, quello che nel tempo ha abbandonato lo splendido percorso artistico della Harvey.

Forse, se paragonato allo show svolto la primavera scorsa a Barcellona, è mancato l’effetto sorpresa – nei confronti del neofita –, ma per ne chi continua ad apprezzare il percorso artistico, è stato un concerto magnifico. Certo, un set leggermente più lungo e qualche pezzo in più fra quelli storici avrebbe soddisfatto la sete di Rock’n’roll di molti accorsi in platea: ma non siamo convinti che nell’economia di uno show del genere tutto ciò avrebbe giovato – magari rischiando di creare una spaccatura esagerata fra le due anime  artistiche della nostra. E tutti noi, perfino quelli che – come chi vi scrive – ritengono che PJ Harvey con questi ultimi dischi abbia superato quel confine fra olimpo del rock e semplice ma egregio servitore, avrebbero voluto scatenarsi con qualche chicca del passato, avrebbero voluto viversi entrambe le dimensioni. L’amaro in bocca, a pensarci, è venuto anche a noi; ma ci sarà tempo per il live con scalette fatte di Best of. Forse non è ancora arrivato il momento per una come PJ Harvey, che sta attraversando con ogni probabilità, l’apice della propria carriera. E noi ce la siamo goduta davvero.

Scaletta 

Chain of Keys

The Ministry of Defence

The Community of Hope

The Orange Monkey

A Line in the Sand

Let England Shake

The Words That Maketh Murder

The Glorious Land

Written on the Forehead

To Talk to You

Dollar, Dollar

The Devil

The Wheel

The Ministry of Social Affairs

50ft Queenie

Down by the Water

To Bring You My Love

River Anacostia

 

Encore:

Working for the Man

Is This Desire?