C’è un supereroe che si aggira per l’Italia. Nottetempo, di locale in locale. Il suo nome è Chiazzetta, all’anagrafe Gabriele Graziani, classe ’81. Cantante punk per vocazione, cantautore per lo stesso motivo. In due parole: Punk Autore (come si è definito lui stesso). Di canzoni ne ha composte a getto continuo per anni. Gode di un repertorio che è un mare magnum di perle, spesso ignorate dai più. Di perle ai porci. Guarda caso il suo ultimo lavoro si intitola proprio “Natura Porca”. E da bravo punk Chiazzetta c’ha messo dentro di tutto, tranne il punk (solo a sprazzi, appena appena). Ma del punk c’è la cosa più importante di tutte: lo spirito. Che però a descriverlo dà problemi, di quelli metafisici. Questioni un po’ da medium, da negromanti. Perché il punk è una scienza inesatta e il suo spirito è così: quando c’è lo senti e basta.
Chiazzetta l’abbiamo incontrato al Wishlist Club di San Lorenzo a Roma, in una delle tante tour-dates del suddetto “Natura Porca”. Che non è un disco sulla pornografia, o sui maiali nelle opere d’arte (almeno ad un primo livello di lettura, ma forse anche ad un secondo, poi non so). Però l’arte c’entra eccome. E l’opera qui coincide con l’artista. Sia “Natura Porca” sia lo stesso Chiazzetta sono infatti un monumento all’arte d’arrangiarsi, in tempi di pauperismo sfrenato. Nell’era precedente, forse, Chiazzetta poteva essere il nostro Billie Joe Armstrong. Adesso, invece, porta in scena un esilarante one man show per voce e chitarra acustica, a cui occasionalmente, in base alla data e al luogo, si aggiungono degli ospiti a sorpresa. E il disco? Una registrazione pressoché casalinga. Canzoni con pochi elementi, tutti efficaci. E soprattutto tante, tante idee. Anzi “Troppi contenuti”, come direbbe Chiazzetta.
Può un cantante punk figlio della Mtv Generation reinventarsi menestrello itinerante? Lo scorso 16 Dicembre, al Wishlist Club, ne abbiamo avuto prova. Un fuoco di fila di brani killer. E l’antifona si era capita fin da “Whisky e rischi”, la canzone d’apertura. Quasi un cabaret alla Amanda Palmer, oppure un reggae smembrato e disossato a colpi di vaudeville, finché non restano che loro: gli accordi, le confessioni di un artista, la melodia. Un brano permeato da una vitale, umoristica, disperata coscienza di sé (sembra una contraddizione, ma l’umorismo è anche e soprattutto questo: una contraddizione). Da lì in poi, ritornelli memorabili, calembour, meraviglie non-sense che somigliano a un’indagine filosofica senza soluzione (“E’ chiaro che tu non sei Chiara, ma nemmeno Sonia, ma nemmeno Ilenia, ma nemmeno Ilaria, ma nemmeno Gloria”, e così via).
Poi, quando Chiazzetta ha intonato il testo di “Andiamo a comandare” di Fabio Rovazzi scimmiottando una ballata di Guccini, e oltretutto rifacendo la voce del modenese alla perfezione, stavamo per pisciarci sotto dal ridere. Un numero da avanspettacolo tv? Può darsi. Ma nel repertorio chiazzettistico (che, ribadiamo, è assai vasto) c’è spazio per lo scherzo, per la variazione, per l’invettiva, e ancor più per l’inventiva. Al contrario, molto meno spazio è riservato alla maniera, alla ripetizione, alla comfort zone della retorica e del testo facile. Dissacrare tutto, anche se stessi. Essere iconoclasti fino in fondo (ecco l’elemento punk oggi latitante nel punk). Fra masochismo e situazionismo (non si critica lo spettacolo in sé, ma la sua ideologia dominante). Per non parlare poi del brano/lezione in cui Chiazzetta ci ha spiegato come comporre un tipico pezzo indie (anche lì si è riso fino alle lacrime).
Ma attenzione a ridere troppo, perché il diavolo si nasconde nei dettagli. Dentro versi come “Ho scelto di morire stanco”, oppure “Mi accollo i rischi di non fare nulla nella vita a parte i dischi” (entrambi tratti da “Whisky e rischi”), e altre sentenze lapidarie di cui, se andiamo a perlustrare, il terreno lirico di Chiazzetta è disseminato. Qui la magia del suo umorismo: giocare col pubblico (attraverso un monologo travestito da dialogo), farlo scompisciare, e allo stesso tempo insinuare il sospetto per nulla piacevole che mai come in questo caso il gioco non sia altro che una finzione scenica da ficcare a forza nel vuoto delle nostre vite, come un breve intervallo, prima di tornare a fissare il soffitto. Il gioco come sovrascrittura, con inchiostro simpatico, di una realtà che trasmette sempre meno emozioni, che parla meno di qualunque ipotetico Dio.
Supereroe per antifrasi, paroliere vulcanico e fieramente logorroico, strimpellatore prodigioso. Amante dei liquori forti (di uno in primis), con due occhiaie che sembrano supermassive black holes. Giullare nichilista, col vizio del ritornello ad effetto. Giocatore sì, ma solo per fare il guastafeste in questo torneo di società (dello spettacolo). Diviso fra “American Idiot” dei Green Day e “Sentimento Westernato” di Bugo. Cantautore per cui vale la pena scomodare il termine “genio”. Cervellotico, ma in scioltezza. Liricamente pronto a tutto. Ha in comune con Calcutta la città di Latina e il sesso maschile.