Si potesse distillare l’ansia, l’idea conviviale del Capodanno sarebbe l’immagine sulla confezione. Che a tutti i vecchiardi – né troppo vecchi, ma neanche giovani – mancano le goliardate di Arbore con le ballerine brasiliane, il tombolone con le bucce d’arancia a coprire i numeri e le vacanze sotto la “neve” di Boldi & co: vademecum indirettamente adorato in loop fra lo sbigottimento delle nuove generazioni che giustamente se ne fottono. Il trenino con la zia (di qualcun altro) a cui puzza l’alito, non finisce mai come nei video su Brazzers e allora viene da chiedersi, nel tentativo di usare il tutto come punto sull’esperienza annuale: come abbiamo deciso di vivere questa parte di esistenza bollata 2016? Vi risparmio le annotazioni sulla mia (tutto sommato magnifica) certo che alla fine, se vi siete ridotti a questo tavolo un motivo ci sarà.
Riprendendo il discorso sulle priorità o sull’approccio alla vita spicciola, ho notato un progressivo aumento d’interesse da parte dei vecchiardi (categoria di cui faccio parte) alla vita e quindi alla salute della propria scena musicale autoctona. Posti à la mercé dello sgretolamento di quella cultura portante che fu (la musica), ci si erge a paladini in difesa di un modo d’intendere l’esistenza ormai passato: quell’intercalare magico che ragiona per accumulo; di libri, film, musica. D’esperienza culturale vissuta in prima persona, con i propri simili, meglio conterranei. Insomma di quelli che più di tutti stanno vivendo il momento socio culturale all’interno del tuo stesso contesto.
Se la mia generazione era considerata quella del “tutto e subito”, forse oggi non si passa neanche dal via. Voi mi darete del conservatore, ma vi sbagliate. Certo, non nascondo che a volte per fare un quadro completo della situazione il mio pensiero raggiunga quello di Don Siegel (“L’invasione Degli Ultracorpi“), altre quel veggente di Romero, ma in tutta sincerità posso capire l’approccio del tipo: “Eh ma lo stoner italiano nel 2016?“.
Io ho una teoria, l’ho provata e funziona. Consiste nel far finta di tendere costantemente verso l’infinito – senza mollare la briglia, che li perdiamo nell’iperspazio –, sostituendo a piccole dosi la necessità d’upgrade di deriva tecnologica con quel concetto di famiglia allargata, di riconoscibilità (e shortini) che solo la scena musicale può regalare ai propri adepti; e vedi come spuntano i poster di Nicke Andersson.
Detto ciò, in barba al P9 della Huawei (uno dei regali hi-tech più gettonati), mi piacerebbe darvi qualche spunto per rimanere abbracciati alla scena nostrana anche durante il passaggio di consegne annuale, roba per nobilitare i vostri altrimenti asettici cenoni. Quattro dischi, come quattro Kata per i vostri demoni.
Torniamo in un lampo allo Stoner di cui sopra, perché voglio proporvi un lavoro che è giunto alle mie orecchie grazie al buon Leo della Go Down Records. Si tratta del secondo lavoro su lunga distanza degli Elepharmers, band cagliaritana che già aveva piacevolmente stupito con l’esordio “Weird Tales From The Third Planet” (sempre Go Down Records, 2013). Esplicative sono qui le assonanze fra ragione sociale e musica in oggetto. Parliamo di pachidermico Stoner Rock che pesca tanto dalla cosmicità di certo Blues a cavallo fra ’60 e ’70, quanto dalle esperienze consolidate nei ’90 da band del calibro di Kyuss, Nebula e Orange Goblin. Un Power Trio con una proposta densa ed omogenea, psichedelica come lo può essere un trip andato male ammirando l’immensità del cosmo – perdersi nei dieci minuti di “The River” diventerà la prassi. Loro suonano dal 2009, ed hanno condiviso il palco (tra gli altri) con Karma to Burn, Electric Moon, Mars Red Sky e Ojm. Erebus è il loro nuovissimo lavoro e se siete dei feticisti gli Elepharmers hanno pensato ad un’edizione limitata in vinile blu che è una figata – la trovate qui.
Cambiamo isola per andare a scoprire uno dei gioielli nostrani celati fra le altrettante meraviglie paesaggistiche siciliane. Siamo a Palermo, e i Criminal Party dovreste conoscerli. Nati nel 1986 per volere del fondatore Fabio Vinciguerra (chitarrista ed autore) sono famosi per essere stati fra le prime formazioni a proporre un Punk-Rock di deriva Garage avvalendosi della voce femminile. La Revolution Bourgeoise, il loro nuovo lavoro, esce a due anni dal precedente EP digitale “Votate Me” e a più di quindici dal disco omonimo del 1999. L’intento è di denuncia, come da profilassi Punk: dal senso di impotenza legato alla dissoluzione dei valori sociali, all’impoverimento ulteriore di una classe media capace di aumentare notevolmente il divario fra poveri e ricchi. La qualità qui è però eccelsa. Basti pensare a passaggi stratosferici come “Rebel World“, così sporchi e devoti ad un linguaggio Punk-Rock ormai perso nei meandri della storia; troverete gli X di Exene Cervenka, e tutto un mondo grandioso che spazia dalle chitarre aussie di Radio Birdman e Saints fino all’incontro velato con certa Wave – “Burned Generation“. Escono per Downbeat & Pink House, lasciate che vi accompagnino per mano sulla strada lastricata di cocci del Punk.
Altro giro ed altra bombetta. Ancora Garage-Punk, questa volta immerso a testa in giù in una tinozza piena di Whisky e Blues. I The Gentlemens sono incredibili. E’ raro trovare una band Italiana suonare così convincente sui dettami del Rock’n’Roll più sporco d’oltreoceano. Il nostro è un trio proveniente da Ancona, e nel proprio background annovera la sacra triade: Cramps – Gun Club – Jon Spencer Blues Explosion, ma non solo. Due chitarre, batteria e chi se ne fotte del basso: Hobo Fi fa delle proprie sporchissime sfumature un vanto – che non disdegnano l’incursione nei territori del Surf e del rock Britannico dei Seventies. Giunti al quarto album in studio i The Gentlemens mettono a segno un colpo da biliardo, confermando ancora una volta l’importanza cruciale di etichette come Area Pirata, capaci di andare a scavare nel torbido facendo emergere pepite grezze ma dall’indubbio potenziale. E voi dovreste tutti contribuire alla causa.
Chiudiamo recandoci virtualmente a Martinsicuro, in Abruzzo. Ci aspettano riff pesanti incastonati in dense atmosfere evocative, quelle dei Mojuba. Quattro ragazzi anch’essi ispirati dalle derive Heavy dei Seventies, poi sconvolti dalla grandezza dello Stoner Rock dei padri – Kyuss su tutti. La ragione sociale “Mojuba” proviene da una preghiera africana di lode e ringraziamento, da cui deriva il termine “Mojo” – l’amuleto che accompagnava i Bluesman delle origini. Il loro obbiettivo è probabilmente salvifico: del resto non è forse nobile utilizzare il Rock’n’Roll per purificare la propria mente, o ancora meglio, la propria anima? Astral Sand (Red Sound Records), il loro full length di debutto, annovera fra i pregi una certa robustezza chitarristica capace di richiamare (come avviene in copertina) lo scontro fra le principali forze sovrannaturali. Un suono corposo che riporta alla mente quel periodo in cui le chitarre degli Alice In Chains finivano inevitabilmente sommerse nel deserto del mojave. Qui il contatto facebook della band.