Dulcamara – Indiana

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Ascoltando i Dulcamara, saltellando per le tracce del loro ultimo “Indiana“, si può avere l’impressione di trovarsi davanti ad una sorta di next big thing italiana. Magari un po’ più profonda del solito, atipica. Di sicuro non troverete la ruffianeria supponente né la semplicità sconcertante di un bravo (e astuto) Calcutta. Non troverete neppure quei germi riottosi (e “popular”), insediati nelle melodie di Riccardo Sinigallia e Francesco Motta – ed il suo premiatissimo “La fine dei vent’anni”. Eppure si percepisce un filo rosso col nostro nuovo (?) cantautorato più affabile, quello sdoganato oramai anche nelle riviste che leggete dal dentista: dei vari Dente, Brunori e compagnia bella – augurando altrettanta fortuna a questi ragazzi romagnoli arrivati al loro quarto disco.

Ora proviamo a giocare con i pezzi più succosi. Partendo magari dall’irresistibile attacco di “Terminal“, che sembra quasi un hit dimenticato nel cassetto dagli Afterhours del periodo “Quello che non c’è” (2002) e che invece diventa un racconto toccante nella stiva di un aereo diretto verso i deserti del nord America. Qui l’andazzo sornione e sognante ricorda il tex mex dei Calexico in salsa Morriconiana, qualcosa che nella propria follia letteraria abbraccia un Tom Waits ripulito: che in Italia vuol dire Capossela.

“Gioia mia quanta fatica per averti mia dove vai quando non volti più per questa via”

L’openerRituale” è un tormentone che possiede un bel giro latino à la Dente ed il solo difetto di freschezza – qualcosa alla “Italian dandy” di Brunori per capirci. Nonostante tutto il brano fa la sua porca figura, anche grazie ad un abilissimo lavoro di arrangiamento: si consiglia la versione per piano e voce capace di far emergere in maniera stranamente più incisiva il testo e l’interpretazione vocale.  Ora pensate al brano “La casa di fronte” presentato da un Fabio Fazio a caso per una trasmissione importante – tipo il suo “Che tempo che fa”?  – fatto? Non dico che venderebbe tavolate di dischi ma quanto meno si scatenerebbero le radio Rai e le lobby del cartello SIAE per l’accaparramento delle edizioni.

Nella casa di fronte a noi non esistono corridoi ma solo terrazze, vista mare. Nella casa di fronte a noi frigo pieno giardino e poi brilla illuminato e’ sempre Natale. Ma dalla casa di fronte a noi hai per caso visto mai qualcuno partire?

La prima impressione è che non ci siano singoloni, né tutta quella propensione Pop gradevolmente ruffiana che risiedeva in buona parte nel disco precedente: un peccato non mischiare le carte come ad esempio ha tentato il suo compagno d’etichetta –  l’INRI che vi consiglio di tenere d’occhio –, il sig.Bianco – penso a “Corri Corri” in duetto non a caso con la prezzemolina Levante.

Il discorso intavolato dai Dulcamara va però da tutt’altra parte. A livello testuale, ad esempio, presenta svariate complessità. Molto personale e ricercata, la scrittura in oggetto arriva a toccare punte di surrealismo e verbosità provenienti forse dal background Hip Hop degli esordi: che ad un certo punto può affaticare le orecchie. Spesso si sfiora la poesia, ma talvolta mancandola l’incedere si trasforma in un viatico più che in una passeggiata. Avrà fatto i suoi conti Mattia Zani decidendo per lo spessore e la narrazione. Di sicuro e’ stato coraggioso, e per questo la stretta di mano sarà poderosa. D’altronde uno se ne può anche fregare del mercato e dei passi da dover fare, e ben vengano questa serie di quadri stracolmi di suggestioni, questo diario emotivo di viaggio; si fotta il disco furbacchione.

Confesso d’altronde un certo piacere anche nell’ascolto del resto del disco. Soprattutto quando si serpeggia fra un “Deserto vivo” (ancora Brunori e Dente) e una “Luce di frontiera” (alla Capossela), fra “Terminal” (Morricone Vs Bonnie Prince Billy, e il sottovalutato M.Ward). “Ladum” e’ una cover dei Monster Of Folk mentre su “Awona wynona Song” si stagliano toccanti omaggi a Fleet Foxes e Grizzly Bear. “Labirinti immaginari” ricorda Carnesi e Colapesce, “Sogni lucidi” certa Psichedelia.

Che dire. Io i Dulcamara li farei aprire per Bill Callahan e Hugo Race o per i Black Heart Procession ma in mancanza di questi non posso che augurare un bel ipotetico festival estivo assieme a Sacri CuoriPerturbazione e Niccolò Fabi, sarebbe bello. Se avete nelle orecchie anni di scorribande con certa canzone d’autore contemporanea “Indiana” non potrà che rapirvi. Il tocco americano poi, con questi meravigliosi e colti anni ’90 tra Jayhawks, Uncle Tupelo e Grant Lee Buffalo, aggiunge il guizzo per distinguersi dalle moltitudini.

Alla fine salutiamo più che positivamente questa fatica di Mattia Zani e i suoi Dulcamara. Un disco diverso per il mercato italiano, magari non sovversivo, ma che mette in rilievo alcune frecce sorprendenti dell’arco con cui Zani cerca di proteggere i suoi pellerossa: una su tutte il lavoro eccelso d’arrangiamento: un vero piacere ad ogni brano. Vento positivo dunque, e ne abbiamo bisogno (non solo in Italia) di musica intelligente, concerti intelligenti, artisti intelligenti, e alla fine se cantassero in inglese saremmo già in piedi ai live coi cd nelle tasche. I Dulcamara hanno lasciato da parte alcune velleità per il piacere di rivelare e prenderci per mano, per darci qualcosa di loro, di personale, e regalarci un movimento fisico da fermi, un film western parlato, follemente sceneggiato, scenografato da Dio. Volevano farci “vedere” qualcosa e spronarci a viaggiare. Ci sono riusciti.

Data:
Album:
Dulcamara - Indiana
Voto:
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