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2 Dicembre 2016 | Vollmer Industries Dreamingorilla Records I Dischi Del Minollo |
Danubio: elogio degli emergenti.
“Chi siamo noi, chissà quest’anno cosa andrà di moda” cantano i Baustelle in una delle loro nuove canzonette. Tra accuse e giubilo, tra la sponda del giovanilismo e lo zoccolo duro di chi reclama la fedeltà alla tradizione del bella canzone italiana, scorre il fiume di tutte quelle forme ibride di cantautorato nostrano alla ricerca di un’identità personale.
Pare che il criterio discriminante più gettonato dai “critici” stia diventando quello tra vuoto e contenuto. Abbiamo tanto tempo libero, noi che scriviamo di musica e altro, oppure non dormiamo la notte per eccesso di militanza, vogliamo ascoltare tutto, così possiamo decidere se a prevalere è il vuoto oppure il contenuto.
Alla ricerca del contenuto segue solitamente la decisione. Possiamo allora decidere se la musica è MORTA o se essi vivono, i generi, i musicisti, le canzoni, la tanto famigerata tradizione. Peccato solo che ognuno abbia una propria idea di cosa sia contenuto e di cosa sia tradizione. Proliferazione dei punti di vista, che annulla qualsiasi tentativo di costruire sistemi come quelli che vigevano in epoca di sfide sanremesi, direi almeno fino al 1990. Lì si che era tutto chiaro, e ascoltavamo ancora le cassettine. La cassettina era solitamente o di un vincitore di Sanremo oppure era una raccolta, così potevamo comunque ascoltare un po’ di tutto con buona pace dei vincitori e all’ombra dei tradizionalisti.
I Danubio, gruppo italiano esordiente in quell’ambito fertilissimo che definirei (oramai) l’underground dell’underground, finirebbero certamente nella sezione “nuove proposte” di un’immaginaria edizione di un Sanremo dell’indie italiano. Se l’indie diventasse la tradizione tanto acclamata in un festival nazionalpopolare chi vedremmo sul palco? Marlene, Afterhours, Verdena, padri putativi del “genere” e poi tutti quei gruppi nati nell’alveo di una specie di rivoluzione musicale rispetto al “classico”. Diventerebbero allora essi stessi dei classici. E perché no. Non è forse questo il miglior destino per chi vuole lasciare un segno?
Quindi sì, i Danubio, quattro ragazzi dalla provincia di Cuneo nati nel 2012, con una gavetta alle spalle fatta di palchi condivisi con Il Teatro degli Orrori, Punkreas, Sick Tamburo, Maria Antonietta, Nadàr Solo, entrerebbero con pieno diritto nella sezione artisti emergenti con questo primo full length che porta il loro nome, Danubio, uscito da poco per Vollmer Industries, Dreamingorilla Records e I Dischi Del Minollo con distribuzione Audioglobe.
In nome del vecchio underground italiano il quartetto cuneese, in formazione indie rock classica, non ha paura di svelare immediatamente all’ascoltatore le influenze che danno corpo a un disco che possiede le sonorità morbide ma rumorose dei primi Verdena. “Dailan”, brano che apre l’album, ne è un esempio: tempi dispari, una buona cura del suono, e un’ambizione narrativa nei testi, a volte rarefatti come in “Albicocca”, a volte più compatti come in “Naìma”, pezzo che ricorda, anche nell’inflessione della voce, una vena poetica all’Amour Fou. In mezzo anche pezzi che sono un primo passo verso la definizione di uno stile più autonomo come in “Il 3 gennaio sulla spiaggia” o “L’incendio doloso di A”: anche qui le influenze dei loro ascolti possono essere riconoscibili ma non rovinano l’impressione generale di un disco d’esordio misurato e ben fatto.
Influenze che sono giusto lì, dietro l’angolo, perché diciamolo: i testi dei mostri sacri sono belli ma se sei giovane e vuoi fare musica rock una delle soluzioni plausibili è anche far suonare le chitarre come nei dischi dei Verdena o scegliere forme compositive che rispecchiano meglio il linguaggio della tua generazione. Un passaggio necessario perché la musica possa evolvere verso forme ibride, se vogliamo, meno cristallizzate ma non per questo meno consistenti.
In un certo senso non è che sia cambiato granché, è solo che dobbiamo scegliere cosa ascoltare in base al tempo che abbiamo. Mentre i vecchi cantautori diventano dei “classici” l’originalità è oggi spesso una battaglia persa, e lo sforzo a conseguirla va generalmente a discapito sia della forma che del contenuto. E la tradizione cos’è? E chi lo sa, però qualcuno la cerca ovunque, persino in Calcutta, in una linea retta che porterebbe indietro indietro, fino a De Gregori. L’ho letto da qualche parte. Mah, sarà. Intanto teniamo d’occhio i Danubio.