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3 Marzo 2017 | autoprodotto | templestheband.com |
La fine dei vent’anni rappresenta uno spauracchio generazionale da tempi immemori; la crescita non è mai a costo zero e l’invulnerabilità adolescenziale lentamente si dissolve sotto i colpi delle inevitabili responsabilità. Pace. La musica da questo sentire ne ha tratto forse le cose più belle, e i Temples seguono gli ormoni al pari della propria crescita come esseri umani e musicisti.
Ma i ragazzi di Kettering (Inghilterra) non ci stanno, non accettano le critiche sull’essenza derivativa della propria musica; perché? Beh, un po’ perché il microcosmo edificato con il nuovo “Volcano” viene spesso ridotto alla stregua di una mera imitazione à la Tame Impala, un po’ perché se fai il passo giusto (e maturo) di metterti in discussione raccontando in maniera coraggiosa quel cruciale periodo di passaggio, non la ciucci.
Un vulcano si, ma che non erutta – e state ‘boni con le similitudini sessuali, che passati i trenta possiamo ancora dire la nostra, eccome –, sedimentando e rimestando la propria lava memore delle esperienze passate: la figura del vulcano è sicuramente un’immagine che affascina la band britannica visti i pellegrinaggi nelle vicinanze di Etna, monte Fuji e Vesuvio.
Se ci pensate, in ottica pedagogica, il passaggio dal sole – l’esordio “Sun Structures” – al vulcano, non è così inverosimile. Basta buttare un occhio sulla cupezza dei testi di quest’ultimo per rendersi conto che la crescita ha lasciato interrogativi profondi nell’animo dei nostri; ed è normale trovarsi oggi al cospetto di brani incentrati sulla morte – “How Would You Like To Go?“.
Una decisione consapevole e quasi inevitabile, quella di agire in maniera più diretta sulle liriche rispetto al precedente lavoro. Anche perché questa volta Adam Smith si è impallinato con le pellicole di Werner Herzog, in particolare (manco a farlo apposta) con “Into The Inferno” (2016), docu-film sull’esplorazione vulcanica. Non se ne esce. Se non attraverso quella serratura posta in copertina, così emblematica e allo stesso tempo descrittiva dell’età adulta, dei compromessi (può aprire e chiudere), del passaggio di stato, anche ormonale: ché la voce ti s’ingrossa e pensi che sia normale, quando in realtà è perché ti fumi due pacchi di Winston al giorno.
Anche Volcano, come il precedente album – entrambi auto-prodotti dalla band –, rappresenta una sfida vinta: questa volta nell’ottica di far buon viso a cattivo gioco. L’album rappresenta l’opportunità giusta per manifestare senza ripensamenti il bisogno di una piccola mutazione. Poco importa se stiamo parlando davvero di quel connubio fra Deerhunter e Tame Impala (“I Want To Be Your Mirror“): basta che non glielo facciate presente mai. Una vagonata di Beatles music in salsa hypnagogica, con i synth che spingono all’orizzonte come un presagio scongiurato o inevitabile – che a noi piace, alla faccia di Simon Reynolds, della retromania e dell’accanirsi sull’ormai inflazionatissimo comparto Psichedelico.
Stiamo parlando anche di singoli riuscitissimi come l‘opener “Certainty” e dell’incalzante British style di “All Join In“, quasi epico nel suo incedere. Il sole rimane quello del tramonto per tutto il disco, sfondo di storie vissute nel giorno (“Bon Into The Sunset“), scendendo a patti con un nuovo scenario che via via si fa sempre più chiaro – “Open Air“. Più domande che risposte nel tentativo di dare una forma al cambiamento (“Mistery Of Pop“), pur muovendosi in maniera non così attenta nei confronti di un’estetica passata che in Volcano subisce una di quelle sterzate tipiche di chi possiede il coraggio di mettere i propri riferimenti in piazza, senza paura. Come fanno i giovani: e le band che sanno giocare veramente con il genere.