Sia fatto il Rock, cantavano gli Ac/Dc nel 1977. Sabato sera al Vidia Club il Rock è stato fatto, nella misura in cui il Rock italiano viene fatto oggi. Motta è salito sul palco alle ore 22.45 circa e ci è stato per un’ora e mezza, e anche questo è molto Rock, considerato che il suo disco non dura nemmeno 40 minuti.
Merito di una band che, da sola, terrebbe su qualsiasi tipo di spettacolo dove venga richiesto del tiro e della verve. Di contro le parti eseguite in acustico fanno di Motta un cantautore che sì, pur con le sue indubbie capacità, rischia a tratti di morire in quella bolla indistinta, tra sentimento tiepido e apatia, che già avvolge altri suoi colleghi, forse troppo anziani e con la pressione bassa.
Per tutto il resto c’è Motta, che con il suo primo disco da solista, “La fine dei vent’anni”, è diventato nel giro di un anno l’esponente più popolare e riconosciuto della frangia Rock di questa nuova “ondata della musica italiana”. E benediciamolo pure questo grandioso momento, in cui tutti sono grandi talenti, vincono premi, fanno i sold out e la musica finalmente vive – anche se io non ho mai veramente capito quand’è che sarebbe morta.
Il fatto è però che un giovane ragazzo dal peso specifico corporeo alquanto basso è diventato un po’ simbolo di questa ripresa dopo la crisi. Così, adesso, finalmente c’è speranza. Ed è in questo clima di attesa che il pubblico si accalca dentro e intorno alla pista: l’atmosfera è vitale, oserei dire frizzante.
Per ora gli elementi perché sia un grande show, uno show coi fiocchi, ci sono tutti. E in effetti i primi dieci minuti di concerto sono una scarica di adrenalina: un attacco veloce, Motta che rischia forse l’infarto due o tre volte nella spinta vocale e gestuale di “Se continuiamo a correre” o nella posa nervosa di “Del tempo che passa la felicità”. Ma la realtà è più magnanima e meno Rock di quanto ci aspettiamo, almeno nel caso di Motta, e aggiungo per fortuna: un po’ provato dal tour cominciato tanti mesi fa e che si avvia alla fine, il giovane che rimpiange sul palco i suoi vent’anni non si è risparmiato, pur confessando la sua stanchezza, insieme alla sua gioia (con dedica a mamma e papà). E poi si è fatto male, in un finale da stremo delle forze. “Caviglia sbriciolata” nell’urto contro un tamburo, immediatamente dichiarata con automaledizione.
Diciamo la verità: ci ha davvero strappato una risata con la battuta “c’è un ospedale nelle vicinanze?”, ma forse alcuni avrebbero preferito ricordarselo per la battuta cazzuta di metà concerto: “Se qui in sala c’è qualcuno di estrema destra è pregato di togliersi dal cazzo”. In Romagna così si vince facile, ma a parte questo Motta ha un’aria da così bravo ragazzo che potrebbe dire tutte le parolacce che vuole. Oltreché le parolacce sono ingredienti fondamentali del Rock.
A pensarci bene chissà se la realtà è stata davvero meno Rock del previsto: preoccupato di non essere abbastanza in ordine per essere ripreso dai fan coi telefonini, preoccupato di dire sciocchezze poco Rock, il finale gli ha riservato un infortunio che, in termini di Rock, vale cento punti e ci riporta alla mente storie leggendarie o più recenti, come la gamba rotta di Dave Grohl o la caduta dal palco di Vasco Rossi.
“Tutte le grandi rockstar sono finite in ospedale dopo un concerto almeno una volta nella loro vita, solitamente dopo una rissa tra i membri della band o cadendo dal palco” recita un quotidiano locale. Non si tratta di caviglia sbriciolata, niente di rotto. Qui meno Rock, ma meglio così.
Una giusta dose di rock’n’roll, nello spirito dei tempi, che sono quel che sono.