Se, com’é vero, già da una decina d’anni Dave Grohl si è tramutato in una specie di David Ogilvy del Rock; un mr. jackpot di genere (chiedo venia director Lynch: «Hellooooooo!») infallibile su cui puntare, e oggetto di culto per gli autori di talent come The Voice e X Factor – che il nostro però avversa profondamente, ma i quali striscerebbero le parti intime molto forte sulla carta vetrata pur di metterlo in uno studio a fare (peggio) le cose che sa già ampiamente maneggiare dalla nascita –, e per i sempre crescenti fan in adorazione velata: ché sì l’idolatria del personaggio, il culto della band maledetta (non i Foo Fighters eh), ma bisogna anche fare i conti con quei pantaloni rotti, sinonimo di attitudine. Allora forse è il caso di riflettere sul fenomeno, magari con Celebrity Skin delle Hole in sottofondo (ironia).
In una parola, non bisogna dimenticarsi del “RUOCK”, quello con la “u” prima della “o” e dopo la “erre”; quella roba con le chitarre e la gente coi capelli lunghi. Che, come se non bastassero gli accumulatori di strumenti à la Arman del “Rock in 1000“, ultimamente ci siamo dovuti sorbire anche gli stacchetti di Radio Freccia: altra citazione, altri capelli lunghi e via così.
Oggi però parliamo di comunicazione, non di arte, di trasmettere, non di arte, e forse anche del fatto che la gente ha già le bollette di Sky, Netfix, Spotify da pagare e quando arriva a casa la sera non ha voglia di ascoltarsi gli Oneohtrix Point Never e neanche dell’arte. Ha voglia di Michael Bay, dei robottoni, dei talent, e anche di Dave Grohl, ma non quello dei Nirvana e neanche quello che suonava la batteria nei Q.O.T.S.A, quello del video di “Big Me“.
Vota Waldo Dave Grohl!
Da qui alla stanza ovale della casa bianca il passo sembrerebbe breve, e tutti vogliono un fenomeno (ciao Tarducci), quello della porta accanto, che ama la musica per davvero e ha tutti i dischi originali, molti dei quali ancora incelofanati: così quando li rivende su Discogs può dire che sono sealed. Quello che non si prende sul serio e ha sempre una parola d’incoraggiamento per tutti, quello positivo che dopo una certa ora stacca l’ampli e ti lascia dormire. Quello che accomuna le camicie di flanella (Grunge) con i Punk del movimento melodico d’inizio novanta che guardavano Mtv e possedevano quel cofanetto contenente tutti i singoli dei Nirvana in cd, e con quelli che: “la chitarra di Ghigo Renzulli mi fa volare” (ciao Rovazzi).
Fuori dalla cerchia rimangono gli altri, a fare la figura dei dandy con la puzza sotto il naso, mentre sul baraccone sale di tutto (perché Dave in realtà è un gran signore): gente che sponsorizza birre imbevibili, bambini che salgono sul palco e fanno scattare il momento lacrimuccia, artisti affermati, moltiplicatori di strumenti, cani, gatti e iguane.
Però, al netto della dinamica da follow the leader populista (che parla alla pancia), che si innesca quando quello sul palco sembra più raggiungibile (ma in realtà non lo è) i Foo Fighters hanno sempre sfruttato la propria innata abilità comunicativa per costruirsi una fan base solida e devota. Pensiamo ai videoclip idioti e geniali con cui la band ha sperimentato con quella legge che oggi è sacrosanta sui social, ovvero: dagli contenuti ma anche molto svago, esagera con lo svago, ma non dimenticarti dei riffoni. Che poi sarebbe anche la legge che regola l’intrattenimento.
Anche nel 2017 i Foo Fighters non si smentiscono e ci regalano una roba che Todd Philips se la sogna. Il video di “Run” è l’ennesima goliardata su riff pseudo pesante (ma solo nell’incipit che poi le radio fanno gnégné) del combo americano. Un calderone che vede azione, tette granny, stage diving, vecchi che pogano, si picchiano ed in fine culmina con un passaggio degno del santone dello svapo, che il cancro è passato di moda.
Buona visione.