Non te reggae più

PROCESSO AL DISCO

Tre Allegri Ragazzi Morti
Primitivi del Futuro

L’ACCUSA – P.M. Enrico Calligari

Dovendo guardare la cosa da un punto di vista obiettivo, si potrebbe iniziare col che il reggae, e il dub ovviamente, è un genere fortemente codificato. Come tale la sua riconoscibilità è massima, la sua identità è forte e così forti saranno l’adesione e l’avversione ad esso.
Partiamo da questa considerazione spicciola ma cambiamo subito direzione.
Non vi è alcun dubbio, per chi scrive, che i Tre Allegri Ragazzi Morti facciano pop. Pop italiano, obliquo, indipendente, e con episodi discografici di pregevole fattura. Una delle essenze dell’idea di pop, per quanto esso possa essere obliquo e indipendente, è sicuramente la ricerca della canzone perfetta. Quella che per melodia, testo, struttura e arrangiamenti possa funzionare in maniera profonda ed incisiva per più persone possibili, tante più quanto meno obliqua e indipendente è l’idea di pop a cui si aderisce.
In questo contesto il buon artista pop lavora cercando la soluzione migliore canzone per canzone. In senso metafisico si potrebbe quasi dire che l’artista pop non deve fare altro che trovare la confezione migliore che consenta ad una canzone di essere espressa al meglio pe colpire al cuore.
Da questo punto di vista, qual’è il senso di fare un’intero album orientato ad un genere? L’operazione è arrogante e pretenziosa. L’album metal di taluno, l’album di salsa di talaltro, l’album hip hop di talaltro ancora. Ma che significa? Quale tipo di approccio artistico si è fatto sulle canzoni? Qual’è il confine tra stile e stilema?
La stima sarebbe salva se si trattasse di una sorta di raccolta di materiale che casualmente ha un trait d’union. Purtroppo, come abbiamo evinto dalle interviste della band di Pordenone, non è questo il caso ma volevano scientemente fare un disco che fosse reggae.
Non disturba voi l’idea che questi si siano seduti a tavolino con l’idea di scrivere un album pre-codificato e, potremmo quasi dire, pre-confezionato? Avete fatto ascoltare Primitivi del Futuro ad un amante di musica reggae o avete paura di farlo?
Secondo noi queste sono operazioni commerciali, prive di impronta personale e artistica, volte solo ad una riconoscibilità stilistica assolutamente imposta.
Ma poi, e qui veniamo alla vera vulnerabilità concettuale di Primitivi del Futuro, perchè proprio il reggae? Perchè non il “disco metal dei Tre Allegri Ragazzi Morti”, perchè non “il disco elettronico” dei Tre Allegri Ragazzi Morti?. La risposta l’abbiamo letta in una intervista su Blow Up e fa cadere le braccia. Il Reggae sarebbe la musica del Terzo Mondo e quindi è buona, più vera e autentica delle altre. Assomiglia molto al “mito del buon selvaggio”, no? Una riflessione così  puerile è, a mio parere, piuttosto imbarazzante per chi dovrebbe produrre cultura o anche solo intrattenimento. Consiglio a tutti di leggersi sull’argomento “Musica di Plastica. La ricerca dell’autenticità nella musica pop” di Hugh Baker e Yuval Taylor (ISBN Edizioni). La suggestione, manipolata e costruita, di una pretesa bontà “originaria” della propria proposta musicale è un antico trucco del buisness musicale, tipico di carenza di idee nuove, in un momento cruciale per rinsaldare la propria credibilità. Ora, non per forza ci deve essere qui un intento capzioso, può anche darsi che si tratti di uno scivolone idealistico tipico di un certo pauperismo all’italiana, di un provincialismo vissuto senza talento. Non intendo certo che sia illegittimo, per dei friulani, approcciare alla  cultura reggae. Uno dei miei dischi preferiti del 2009 era un disco reggae, dei Fat Freddy’s Drop, neozelandesi, ed era eccitantissimo. Insomma non solo intento di bassissima elaborazione, ma anche risultato inutile, tradizionalista in modo stucchevole, didascalico e autoreferenziale. Incapaci di dire qualcosa di nuovo sul genere che affrontano, di aggiungervi del proprio, si preoccupano solo di dire qualcosa di nuovo su di loro sfruttando un canale consolidato, un artificio presuntuoso e banale.

LA DIFESA – Avv. Emanuele Binelli

Ci sono cose ingiuste e cose giuste. In un mondo in cui la pratica sacrosanta della pluralità dei punti di vista ha dato la possibilità a chiunque di trincerarsi dietro la sua soggettività, a volte presuntuosa, a volte incompetente, ci sono comunque ancora cose giuste e ingiuste. Malgrado voi. E una cosa ingiusta è non capire due o tre cose di questo disco. Prima cosa, che non è registrato a cazzo di cane, anzi è registrato in maniera superba: un vero piacere per chi ANCORA ascolta dischi NON dalle casse del proprio computer. Come fate ad ascoltare un disco dalle casse del vostro portatile? Come fate? Smettetela. Chi c’è dietro ai controlli? Paolo Baldini degli Africa Unite. Perché? Perché come avrete forse sentito dire, l’ultimo dei Tre Allegri è un disco reggae. E’ un disco reggae? Non proprio. E qui veniamo alla seconda cosa da capire su questo disco: Primitivi del futuro è un vero e proprio esempio di contaminazione culturale, di interculturalità,  ma virtuosa. Virtuosa nel senso che non ci sono facili soluzioni. E la prova di questo fatto è che accettate molto più volentieri e di buon grado, anzi addirittura mitizzate, il calypso da salotto dei Vampire Weekend, il multiculturalismo da strapazzo dei fighetti di New York, troppo figo per non essere svuotato delle cose più disturbanti. E invece qui vi sentite disturbare: “Mhh… un gruppo di ispirazione punk e rock come i Tre Allegri che fa reggae e dub?” E storcete il nasicchio. E se vi dico, senza scoprire niente di nuovo, che l’hanno fatto i Clash e i Police? Mi dite che invece qui il reggae è componente più rilevante, che ha una sapore più forte. Ancora meglio. Ancora meglio dico io e lo ribadisco, ancora meglio: significa che questi Primitivi del Futuro con le maschere d’osso hanno integrato in profondità una lezione proveniente da altre culture senza snaturare la propria, e dico che è questo il vero senso dell’interculturalità. Perché questo, signori, e qui la terza cosa da capire bene su questo disco, non è un disco reggae e non è un disco dub, ma è un vero disco punk. Lo è nella verve anarchica e libertaria (si vedano “Mina”, o “L’ultima rivolta nel quartiere Villanova non ha fatto feriti”) lo è nei testi urgenti come non mai (“La faccia della luna”: una canzone che attraverso la metafora agricola compie un arco che parla del genere umano predatorio, nella maniera più materialista possibile, appunto). E nello stesso tempo, se ci riuscite a concepirlo, è un disco reggae, perché va alle radici di questa cultura, non la snatura nell’incontro, ma ne scopre con amore le radici: c’è profumo di mare, di caribe, di galeoni e di voodoo in questi brani, in questi tempi mai banali. Degli allegri ragazzi morti che camminano. Appunto. Fatevi un bel respiro, deponete pregiudizi, e lasciatevi penetrare, contaminare, decostruire. Uno degli album più brillanti e belli di questi ultimi tempi oscuri e privi di sostanza.

GIURIA POPOLARE – Il tuo voto

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