Questa rubrica nasce come una galleria degli incidenti più clamorosi in cui mi sono imbattuto.
Li condividerò con tutti i lettori di Rocklab, perchè “ci sono più cose assurde nell’industria discografica, ed wood, di quante può sognarne la tua filmografia”.
Anno domini 1966. Siamo all’anticamera del movimento hippie che presto convergerà in massa a San Francisco in occasione di quella che sarebbe diventata la “summer of love”. Manca un biennio ai sommovimenti del ’68, con tutta la loro ondata di destabilizzazione sociale e culturale, e appena tre anni al più colossale evento sonico di tutti i tempi: il megaraduno di Woodstock. Il rock’n’roll si appresta a diventare un fenomeno di massa, in quanto colonna sonora ideale (e trasversale) del tumulto d’umori ribollenti che anima la nuova generazione. Le sostanze psicotrope – acidi, cannabis e qualche altra droguccia mescalina – dilagano come note superflue in un assolo di Keith Emerson, generando, oltre a nuove correnti musicali, un nuovo ascolto.
E’ in questo contesto che ad Austin nasce un’opera seminale destinata ad assurgere a leggenda dell’acid rock: The Psychedelic Sound Of dei 13th Floor Elevators. Una colata iridiscente di urla sguaiate, deraglianti bordate garage, melodie tanto lascive e bestiali quanto ipnotiche e fiabesche, si insozza della polvere millennaria degli aridi paesaggi texani, sedimentando le basi di tutte le sperimentazioni psichedeliche a venire. I flower children metropolitani hanno trovato il sottofondo ideale alle proprie allucinate escursioni mentali.
Pensate a quanto doveva essere entusiasmante tutto ciò – i poeti beat, l’amore libero, i trip lisergici sulle sconfinate highway statunitensi, l’eversione studentesca, i concerti oceanici con alcune tra le più storiche formazioni di tutti i tempi, la nascita pressocchè quotidiana di nuove tendenze artistico-culturali, pensateci, dicevo, e poi gettate allegramente le vostre elucubrazioni nel cesso. Fatene scempio, perchè ora non siamo più negli States ma in Italia, nello stesso periodo.
Sulla scia delle radicali trasformazioni socio-economiche intercorse nel decennio precedente e destinate a protrarsi fino alla fine dei ’60 (il cosiddetto “miracolo italiano”), la nuova generazione di adolescenti ha assaporato un benessere materiale senza eguali. Questa rinnovata euforia consumistica si sposa con un bisogno liberatorio di disimpegno e spensieratezza che affranca i giovani tanto dallo spettro arcigno del conflitto mondiale quanto dall’egemonia culturale esercitata dalla Dc; un terreno fertile, come si può immaginare, per le fascinazioni hard d’oltreoceano.
Purtroppo però, anche e soprattutto a causa della pervasività ecclesiastica a tutti i livelli sociali, il rock, nella sua declinazione beat, può affermarsi e circolare solo in nicchie ristrette. Soprattutto neIl’entroterra provinciale, cantine polverose e oratori gestiti da qualche parroco progressista costituiscono gli unici spazi espressivi per giovani aspiranti urlatori. Le novità discografiche Usa\Uk sono setacciate, filtrate e infine diffuse da trasmissioni radiofoniche “controcorrente” come “Bandiera Gialla” (condotta da Arbore e Boncompagni) o da riviste musicali come Big e Ciao Amici, che però non eccedono mai i confini del politicamente corretto, limitandosi a lanciare innocue hit da classifica degli artisti internazionali più in voga (Beatles, Hollies, Aretha Franklin, Otis Redding). La scarsissima conoscenza dell’inglese da parte della stragrande maggioranza degli italiani, unita al moralismo cattolico imperante, di certo non premiano il blues sporco e selvaggio dei neri (Chuck Berry, Howlin’ Wolf), ma semmai una versione rassicurante e ancorata alla canzonetta leggera dello stesso: il Boogie-Woogie di Adriano Celentano, ritenuto perfino trasgressivo per gli standard dell’epoca.
E’ in questa prospettiva che va inquadrato il fenomeno nascente della “Messa Beat”. Il concilio vaticano II aveva innovato l’istituzione cattolica pochi anni prima, introducendo una serie di provvedimenti tesi a coinvolgere maggiormente i fedeli (in particolar modo i ragazzi) nelle celebrazioni. Sulla scia di questo approccio “rivoluzionario” numerosi urlatori beat, vivificati da un’incrollabile devozione o semplicemente da urgenza comunicativa, decidono di metter su complessini (jazz, pop, rock, garage, surf) inneggianti a tutta l’iconografia liturgica. Laddove i vari Jefferson Airplane, Doors, Jimi Hendrix, Velvet Underground incitano ad un lifestyle improntato alla promiscuità sessuale, all’autodistruzione e al sollevamento contro ogni sopruso reazionario, i nostrani Barritas cantano le lodi della mansuetudine, della continenza e della sobrietà (dei costumi ma non solo). Alle seduzioni perverse della rivoluzione sessuale, la messa beat sostituisce l’unico amore che è lecito consumare prima, durante e dopo il matrimonio: l’amore per Cristo.
Insomma, nell’epoca in cui la mitizzazione della rockstar si ammanta di connotazioni mistiche e metafisiche, tanto da indurre John Lennon a dichiarare, il marzo di quello stesso anno, “Il cristianesimo scomparirà. Si ridurrà e svanirà. Non occorre che lo dimostri. Io ho ragione e si vedrà che ho ragione. Adesso noi siamo più popolari di Gesù”, il beat filo-cristiano tenta di mondare il rock’n’roll dalle sue insidiose suggestioni pagano\idolatriche, in modo da ripristinare l’ordine cosmico violato.
Sforzatevi di immaginare i membri dei Bumpers al megaraduno di “Woodcross”.
Immaginateli adagiati sull’erba mentre, in un tripudio di sorrisetti benevoli e canti gregoriani, si passano in circolo ostie e pinte di acqua santa.
Immaginate il terribile wall of tears sprigionato dal concerto, il pogo di abbracci fraterni, gli amanti che si sussurrano all’orecchio, con fare impertinente, frammenti del rosario, scambiando fra loro vezzosi braccialetti di cilicio.
Immaginate tutto ciò, premetevi una mano sul cuore, volgete lo sguardo alle immensità siderali e penserete, non senza un sospiroso rammarico: perchè, Dio mio, perchè non ero presente anch’io? Buona Pasqua!