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31 maggio 2011 | DeAmbula | pineda |
Sarebbe da capire il perché si semplifica, utilizzando il termine post-rock. Vediamo… Che cosa c’è che sa tanto di modernità, che sa tanto di superamento del rock in questo modo di relazionarsi rispetto al fare musica? Probabilmente Il fatto di non voler raccontare storie, ovvero di non dover dire niente, di non doversi inventare nessun alibi o orpello per giustificare la produzione artistico musicale.
Art for art’s sake. E’ una prima cosa.
La musica rock ha in effetti bisogno del contraltare di questa pars destruens per non collossare schiacciata sotto il peso della propria retorica.
Altro elemento di rottura, centrale nel post rispetto al rock è il rifiuto dell’ego, del frontman come figura centrale e rituale del concerto, da Elvis in poi. La dittatura del frontman diventa nel post una condivisione di emozioni liberata dai protagonismi, un interscambio alla pari tra pubblico e musicisti.
Andando dal generale al particolare, e scendendo nel discorso che ci riguarda, penso che queste riflessioni debbano aver scosso l’anima di Umberto Giardini alias Moltheni per convincerlo ad imbarcarsi in un progetto come questo.
Anni passati a proporre storie: un cantautore, per sentirsi autorizzato a esprimersi, deve produrre dischi incentrati attorno a qualcosa, che sia la sua vita, o che siano concetti generali come l’amore, la morte, la rabbia, la società. E poi? E poi, dopo svariati dischi, vorresti scomparire e riuscire a perderti come un atomo nella realtà: across the universe. Avviene anche a chi ha uno stadio intero (va beh dai, diciamo anche un palazzetto) che canta le sue canzoni, figuriamoci se non avviene a chi non ce l’ha. E’ fisiologico: dopo aver concentrato la tua ricerca artistica per anni intorno a te stesso, anche tu ti vieni a nausea.
I Tortoise diventano allora la tua ancora di salvezza. Basta parole! “Le parole sono strumenti molto poco affilati, sono fucili a canne mozze” (T. Yorke, che di parole ne ha scritte). Il rifiuto dell’ego, della figura centrale di te su un palco, ti appare come un balsamo, l’idea ti rinfresca come pioggia d’estate. Gli Explosions in the Sky ti rapiscono, perché lo spazio in cui rinunciano a parlare di loro stessi lo dedicano a parlare di chi li viene ad ascoltare. Perché la sensazione che si prova costantemente di fronte a gruppi post del genere – a quelli bravi intendo – è che ti trascinino sul palco, ti includano, ti vogliano sentire risuonare assieme alla loro musica. Quello spazio vuoto in mezzo agli strumenti è in realtà un altare innalzato al culto dell’anima dell’ascoltatore, al gioco stesso della comunicazione, emittente-ricevente. Senza disparità, senza un sopra e un sotto.
E’ per tutti questi motivi che un disco come questo va valorizzato, perché frutto di una ricerca personale, oltreché ben fatta e impeccabile, anche SINCERA e bruciante. Non so voi, ma a me la sincerità nella musica piace.
Umberto Giardini si associa a due Ex Moltheni, Marco Marzo alla chitarra e Floriano Bocchino al Rhodes, mentre a sé riserva il ruolo più lontano dal frontman che esista: quello del batterista. Il risultato è un album bruciante di vita e di speranza per la musica italiana. Sei tracce, in realtà sette (una suite da dieci minuti è dovuta alla somma di due brani), per un totale di 37 minuti folgoranti. Per prima cosa perché i suoni sono un godimento puro per la cura e il gusto che dimostrano. E in secondo luogo perché i brani (tutti strumentali) vantano un songwriting sontuoso, con un afflato per la melodia mai autocompiaciuto, destrutturazioni che arrivano sempre al momento esatto, un gusto retrò che fa a tratti balenare i Calibro 35 o meglio i loro Maestri, fino – oserei dire – a uno spiccato gusto per il prog italiano o per l’acidità dei Goblin di Simonetti, il tutto rielaborato e metabolizzato insieme ad una tensione alla psichedelia che non è retorica o vintage nemmeno per un attimo. E Non è poco. Un disco, questo dei Pineda, che a mio parere rivaleggia con un altro disco quasi contemporaneo di rock (semi) strumentale italiano dall’afflato internazionale: quello degli Aucan. E che forse lo sopravanza pure nella chiarezza degli intenti, e nel suo captare con cristallina evidenza quanto di italiano sia possibile ibridare col post-rock internazionale per non sembrare l’ennesima band di epigoni sfigati delle band internazionali di riferimento. Così il post-rock, per una volta, rinasce in Italia. Eccovi i Pineda. Ce n’è da andarne fieri.