Metallica & Lou Reed – Lulu

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31 Ottobre 2011 Mercury Metallica.com - LouReed.com

The View

“O Lou, Lou, wherefore art thou, Lou?”

Premessa: chi scrive non è uno di quei forcaioli ansiosi di mettere alla berlina artisti dallo status leggendario solo per inebriarsi d’un sottile piacere iconoclasta. I Metallica hanno accompagnato una buona fetta della mia maturazione musicale, e Lou Reed – con la sua carriera lastricata di gemme indimenticabili ma anche di scivoloni colossali e momenti controversi – ha traghettato verso lidi inesplorati l’amore che nutro per la Prima delle arti.

Parlando dei four horsemen, ero riuscito a trovare del buono perfino nel criticatissimo “Load” (il lavoro che convenzionalmente segna l’inizio del loro declino), un onesto disco blues rock colpevole solo di distaccarsi nettamente dal thrash metal degli albori, e negli ultimi due “St. Anger” e “Death Magnetic”, bolsi, trascurabili, ma tutto sommato dignitosi. Lou Reed è ormai un decennio, più o meno dalla pubblicazione di Ecstasy, che non produce nulla d’accattivante, se si eccettua per qualche singolo episodio.

Eppure la curiosità generata da un progetto tanto atipico era altissima. Prima l’esibizione alla R’n’R Hall of Fame del 2009, poi l’annuncio del sodalizio artistico ed i primi proclami roboanti, infine i sample delle canzoni su internet, centellinati con maestria per pompare l’hype il più possibile. Due nomi storici (eufemismo per dire “vecchi”, se non proprio “putrescenti”), latori di un’attitudine apparentemente ininconciliabile, riuniti in un progetto comune a sfondo avanguardistico\teatrale. Un’attesa febbrile protrattasi fino al 21 ottobre, quando finalmente Lulu è stato reso disponibile in streaming sul sito ufficiale.

Responso: un tonfo inappellabile, atroce, tanto più rovinoso quanto più numerose ed incontrollabili sono state le speculazioni, perplessità e aspettative irrealistiche che ne hanno anticipato l’uscita. Mi spingo oltre e mi assumo tutta la responsabilità di quanto sto per dire: Lulu si candida seriamente, nonostante l’esaltazione dei suoi autori, ad assurgere a capitolo peggiore di entrambe le discografie, dei Metallica e di Lou Reed. Il formato sperimentale con cui è stata confezionata l’opera imporrebbe più cautela nell’esprimere giudizi tanto drastici, ma sfido chiunque ad ascoltare questa roba per più di tre volte (io ci sono stato costretto) senza che le orecchie comincino a grondare sangue e manie autolesionistiche colgano lo sciagurato ascoltatore alla stregua della Lulu su cui sono incentrati i testi.

Vediamo uno ad uno i motivi per cui questo parto (o per meglio dire “aborto”) si presenta con tutti i peggiori auspici. Innanzitutto la disonestà intellettuale di alcuni dei musicisti che vi hanno preso parte. Lasciano completamente basiti alcune dichiarazioni rilasciate da James Hetfield (cantante dei Metallica) all’edizione americana di Rolling Stones: “I also felt, ‘This is really unique.’” (…) “This makes… And Justice for All sound like the first Ramones album.”. Onestamente, pensando al succitato disco dei Ramones, mi domando: ma quanta colla ha pippato Hetfield prima di blaterare un’idiozia simile? Ok, Lulu ha un’impostazione smaccatamente avantgarde, con lunghe parti dilatate e minimaliste, testi fiume recitati più che cantati e arrangiamenti del tutto inediti per i Metallica, ma ciò non toglie che c’erano più idee musicali e lirismo nei 10 minuti di “To Live is to Die” che in tutto questo elefantiaco stillicidio di un’ora e mezza. Ad aggravare la sensazione di sberleffo ci si mette il fatto che per mesi Ulrich e company hanno puntualizzato che Lulu non è da intendersi come disco dei Metallica ma come capitolo a parte, salvo poi smentirsi scegliendo come singolo “The View”, l’unica canzone del lotto vagamente riconducibile a quanto fatto da loro in passato (nonchè l’unica in cui Hetfield canta parte del brano, piuttosto che limitarsi a qualche coro occasionale). Il fatto che “The View”, con i suoi banalissimi riff sabbathiani, paia una out-take di ReLoad (disco già di per sè composto di scarti), dovrebbe fornire amari spunti di riflessione.

Passando al comparto musicale vero e proprio, si può dire che Lulu abbia le sembianze di un orribile disco di Lou Reed che suona come un censurabile side project dei Metallica. L’impostazione generale (il concept, la struttura aperta e libera dei brani, l’assenza di vere e proprie canzoni, il background colto ispirato ad una tragedia teatrale del drammaturgo espressionista Frank Wedekind ) rivelano nel maudit newyorkese il vero artefice e deus ex machina dell’operazione. Non a caso, qua e là, si colgono diversi punti di contatto con “The Raven”, l’opera rock Reediana dedicata alla poesia di Edgar Allan Poe (con la differenza che lì a nobilitare brani poco ispirati ci si metteva il sax di Ornette Coleman, mentre qui c’è solo Kirk Hammet che macina riff monolitici e ripetitivi da abc del metal for dummies). I Metallica forniscono disciplinatamente il loro apporto strumentale, senza mai deragliare d’una virgola dai diktat del loro ingombrante collaboratore, famoso o meglio famigerato per la soggezione che incute da sempre nei musicisti che lo circondano.

L’inizio dell’ouverture Brandenburg Gate invero lascia ben sperare, con le sue ariosità acustiche e un testo incredibilmente suggestivo che pennella con estrema efficacia il languore decadente e mitteleuropeo evocato dalla protagonista (“I would cut my legs and tits off\When I think of Boris Karloff and Kinski\In the dark of the moon …It made me dream of Nosferatu\Trapped on the isle of Doctor Moreau\Oh wouldn’t it be lovely”), ma il resto della composizione disperde l’interesse in una manciata di accordi elettrici memori della vecchia elegia in onore di Andy Warhol “Songs for Drella” (impossibile non sorridere, però, quando quel cattivone di Hetfield urla nei cori, con fare vezzoso ed impertinente, “i’m a smalltown girl”). Pumping Blood è uno dei pezzi più riusciti, se non altro perchè traspare una certa sintonia tra l’interpretazione di Reed e la scenografia sonora orchestrata dai Metallica (arpeggi lugubri, brusche accellerazioni, rullate telluriche, convulsioni dissonanti). “Mistress Dread lascia a dir poco attoniti: un riffone thrash supersonico fornisce l’unico tappeto sonoro a 7 insostenibili minuti di farneticazioni Reediane su un testo intriso di perversione sadomasochistica

(“wish you’d tie me up and beat me\Crush me like a kick\A bleeding strap across my back\Some blood that you could kiss”). L’effetto è inqualificabile, straniante, difficile da rendere a parole. Immaginate un Allen Ginsberg fulminato dall’alzheimer mentre declama Masoch sul cubo di una discoteca caraibica: la dissociazione psichica è più o meno analoga, al punto che Il connubio musica-testo fa pensare, più che alla monumentale Venus in Furs, ad un’ipotetico gruppo speed metal fondato da Isabella Santacroce dopo una pasticca di troppo. Iced Honey suona come l’unica vera e propria “canzone” di Lulu: un classico boogie di Lou Reed in 4\4, vecchia ruggine rock sempre piacevole, sebbene ci sia stata propinata in tutte le declinazioni possibili.

Cheat On Me è un crescendo strumentale che si snoda attraverso 11 estenuanti minuti di durata, con un testo che se non parlasse d’una ballerina di facili costumi ormai decaduta e sull’orlo del suicidio, sarebbe a dir poco poco risibile nello scodellare un nichilismo sentimentale da 16enne piccata (“I have a passionate heart\It can tear us apart\I have the loves of many men\But I don’t love any of them” (…) “Your love means zero to me\I’m a passionateless wave upon the sea\Passionateless wave upon the sea”). Quando Hetfield intona nei cori, per l’ennesima volta, “why do you cheat on me?”, sembra quasi di vedere Melissa P. nell’intimità della sua cameretta alle prese col diario che l’ha resa celebre. Ascoltando “nothing else matters”.

Quando ormai si è tentati dal versarsi cera bollente nei timpani, arriva la seconda parte dell’album (4 canzoni per quasi 50 minuti di durata), introdotta da Frustration“.… ed è qui che monta il rammarico (anzi la “frustrazione”) per ciò che Lulu sarebbe potuto essere se solo si fosse adottato un approccio meno “buona la prima” e più ragionato. Frustration è senza dubbio la canzone migliore del lotto, impeccabile nell’alternare nebbie orchestrali, riff rocciosi e trascinanti e parti atmosferiche; magnetica nel sapiente dosaggio di recitazione enfatica e canto lunatico. Verso la fine, quando Reed viene lasciato solo a sussurrare un testo lesbo dai risvolti morbosi e inquietanti, sembra addirittura di percepire l’alienazione di Frankie Teardrop nella celeberrima canzone dei Suicide. Un vero peccato che Little Dog(una litania abulica per feedback brumosi e strimpellii di chitarra classica) e Dragon (ancora feedback e reading per 3 minuti, poi 8-minuti-8 di pesantissimo riffing monocorde), uccidano ogni entusiasmo residuo. Junior Dad tenta di salvare qualcosa in corner con una ballad sorprendentemente radiosa che sfuma in 15 minuti di onirismo ambient cullato dagli strumenti ad arco (cose che Brian Eno faceva con molto più gusto oltre 30 anni fa), ma ormai si è sfiniti, esasperati, e si desidera solo porre fine al supplizio.

Se dovessi consigliare ai Loutallica un’idea geniale per il prossimo concept, proporrei loro di pubblicare “pupù”, la triste storia di alcuni pilastri del rock sull’orlo del decadimento senile che tentano di rilanciare le proprie quotazioni collaborando ad un concept pseudo-teatrale, wannabe maledetto e blandamente provocatorio, col solo risultato di farsi sbeffeggiare dall’intera rete e inimicarsi tutti i propri fan.

Lulu: un disco che è fin troppo facile liquidare come “trash metal machine music”.