Lana Del Rey – Born to Die

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Ormai siamo entrati nell’ottica di una sovra-informazione e sovra-impressione quotidiana, dove ogni elemento che ci circonda o di cui entriamo a conoscenza coincide ad un giudizio pre imposto, non dovuto all’esperienza diretta e personale, ma condizionato dalla pressione e dall’ambiente che ci circonda.

Non voglio essere lo stoico, l’asociale o il pessimista, ma questa Lana Del Rey, con l’onda d’hype che ormai spinge e trascina fino alla spiaggia della discarica ogni uscita discografica, mi aveva stancato prima ancora di ascoltarla.

Già spiacevolmente impressionato dall’ennesimo rifrullo warholiano di collage postmoderno del nome (unione dell’attrice Lana Turner e del modello di automobile Ford Del Rey), ero rimasto suggestionato dal gusto lynchiano, inquieto e malinconico di “Video Games”: sospesa nella sua voce a metà strada tra Dusty Springfield e Fiona Apple, si scorgeva una crepa esistenziale che riusciva ad affascinare.
Poi arriva il disco e la complessità del tutto. Pezzi come “Born To Die” e “Blue Jeans” mostrano una capacità stilistica affine al gusto denso più black e a un lirismo agrodolce, dalle tinte sintetiche, riescono benissimo ad intrigare, sorretti anche da composizioni d’atmosfera più club ‘50s, come il siparietto di “Million Dollar Man”.

Ma si parla di uno specchio rotto. Alcuni frammenti sono luccicanti e affascinanti nella loro fragilità, ma il resto è una massa incomposta di sfumature, di pezzi di realtà incapaci di rappresentarla, di penetrarla. Rimandi all’ R’N B, al pop da classifica dei primi 2000 si spargono in tutto il disco, fino alla coppia finale “Lolita” “Lucky Ones” che rappresenta il “perfetto” incrocio plastico-gomma da masticare di questa identità gemella di Lana.

Il punto di partenza e la fine al tempo stesso per comprendere Lana Del Rey, o perlomeno questa sua prima opera, è proprio il video di “Video Games”: un collage accurato e nostalgico di scene di famiglia, di generazioni passate, di momenti trascorsi e rivissuti con commozione, con il senso di solitudine che proviene dalla coscienza di aver perso qualcosa. Una nostalgia un po’ strana, però, per un’artista nata nel 1986, e che mostra pure in questa sua filiera di emozioni e riferimenti una costruzione retromane di moda.

Non so quanto potremmo resistere con questo amore per il passato che contamina e corrode ogni cosa che facciamo di nuovo. Lana del Rey o meno…