Matt Elliott – The Broken Man

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La neve che a fiotti, sbattendo rumorosamente sulla finestra, nel mio paesino appare come una strana manifestazione divina, mi sta accompagnando nell’ascolto di questo intimo album di Matt Elliott. L’atmosfera che si sta creando nella mia stanza ha una sapore angosciosamente apocalittico, o meglio, post-apocalittico : il vuoto dopo il caos che si risolve in uno spaesamento mentale vertiginoso. E, a quanto pare, l’artista di Bristol è riuscito nel suo intento, quello di trasmetterti le paure di un “uomo rotto”, deluso e disilluso che si appresta a camminare malinconico sulla terra, perdendosi nei sentimenti e nelle strade della quotidianità.

The Broken Man è il risultato che un adulto ormai desolato, lucidamente, sa rappresentare della realtà nella quale ha vissuto: un miscuglio caotico di dannazione e beatitudine, nel quale è (ahimè) il primo elemento quello predominante. L’oscuro compositore decide di armarsi, per il suo viaggio musicale, di pochi elementi, scegliendo sapientemente quelli più consoni alla sua “missione narrativa”: chitarre classiche, un pianoforte, pochissimi elementi sinfonici, e cori melancolici (mentre lo ascoltavo ho pensato immediatamente ai dannati tormentati dell’Inferno dantesco).

L’apertura del disco è affidata a Oh How We Fell. A dare il via al pezzo c’è una chitarra classica dalle sonorità latineggianti; ma è solo un’illusione: il ritmo si fa incalzante e pressante, sullo sfondo si sente l’eco di campane che man mano si fanno sempre più presenti e al terzo minuto arriva la voce di Elliott, cupa e profonda alla David Sylvian, che riesce a trattenerti col fiato sospeso per altri sette minuti. Il brano termina in un potente caos sonoro, strutturato in continuo crescendo .

L’acme malinconica arriva al terzo pezzo Dust Flesh And Bones. La chitarra classica continua nel suo durevole riflusso di note, la voce di Elliott si apre con un’ossessiva ripetizione del ritornello “This  how it feels to be alone” (E’ così che ci si sente ad esser soli) . La sua voce mi entra in testa dolcemente e come se lo avessi qui davanti a me: i mali che ha provato sulla sua fragile pelle, il dramma di un uomo abbandonato a sé. E quando ormai ci si è abituati a questo virtuosismo chitarristico arriva il quinto brano, scritto in collaborazione con Katia Labeque, If Anyone Tells Me ‘It’s Better to Have Loved and Lost Than to Never Have Loved At All’ I Will Stab Them in the Face (titolo lunghetto ma esplicativo): un pezzo interamente suonato al pianoforte in sostituzione alla sei corde, ma il risultato rimane.

Le strade che il cantautore inglese ha percorso, sia nella sua attività solista che con nei Third Eye Foundation, sono molteplici, dall’elettronica al post-rock a ballate neoclassiche, ma il risultato è sempre lo stesso: ogni volta Matt Elliott riesce a intossicarti con la sua inquietudine narrata con testi brevi ma significativi. Stavolta ha deciso di decantare le sue paure nel modo meno diretto che avesse mai tentato: mettendo alla prova l’ascoltatore con pezzi di dieci minuti, scarni, pieni di rimandi a ballate gotico-classiche, alternati a brevi momenti di stasi, che richiedono un certo impegno, ma che certamente viene ripagato.