Amor Fou: Non vogliamo puntare il dito, ma raccontare il nostro tempo

Esce il nuovo disco degli Amor Fou, Cento giorni da oggi, un album che ha già fatto molto discutere per le innovative influenze elettroniche e dream pop che lo pervadono, e per un nuovo approccio ai testi.
Abbiamo avuto una chiacchierata telefonica con Alessandro Raina su questi argomenti e molto altro, ecco il resoconto per i lettori di Rocklab.it

Innanzi tutto il titolo, perché “Cento giorni da oggi”?
Perché è un periodo che rappresenta tante cose, tanti concetti. Ci siamo accorti che tante esperienze della vita, come banalmente la durata di un flirt, piuttosto che i fatidici cento giorni di un governo, rientrato tutti in questo lasso di tempo. Fondamentalmente il disco è nato dall’impressione che hanno fatto a me alcuni episodi, ma anche alcune persone: vedere ricorrere il fatto che sempre di più ci sia un’urgenza di agire, di far succedere le cose, non pensando più “chissà come sarà la mia vita da grande, fra dieci anni, dove sarò”, ma “voglio cambiare adesso, voglio fare una cosa adesso, esco di casa e la faccio”, il che vuol dire attaccare un regime, così come scrivere una cosa sul muro, così come lasciare l’università e via di questo passo.

Un netto cambiamento di rotta nella produzione e negli arrangiamenti rispetto al disco precedente, un sentore pop molto fresco ed efficace. Nel disco precedente dichiaravi di avere voglia di strumenti veri. Cosa ti è successo nel mentre?
Mah, sicuramente tante piccole certezze legate al vecchio disco sono state un po’ messe in discussione o superate. Facendo un bilancio io per primo ho avuto l’esigenza di scrivere delle canzoni un po’ più immediate, ma senza banalizzarmi. E allo stesso tempo c’è stato il desiderio di fare un disco che fosse attuale e incollato alla contemporaneità, nei contenuti, e ancora di più nei suoni. Volevamo che al primo ascolto sembrasse un disco del 2012, il disco di una band di qualsiasi parte del mondo. Questa scelta ci ha stimolato a utilizzare un linguaggio diverso, che già ci apparteneva, ma che non era mai stato fuso con l’attitudine degli Amor Fou. Il risultato è per noi sicuramente più immediato e più vicino all’idea di pop che avevamo dall’inizio. Gli Amor Fou li abbiamo sempre pensati come un gruppo pop, non come altro.

C’è una forte influenza della musica anni ’80. In particolare La new wave e i suoi derivati, o sbaglio? Qual è l’influenza internazionale più spiccata per il suono di questo disco, e quale il riferimento italiano principale?
Dal punto di vista internazionale siamo tutti dei grandi fan della new wave. Però più che rifarci in modo diretto, filologico ai grandi nomi (Cure, Joy Division, Echo and the Bunnymen, Television) abbiamo preferito filtrarla attraverso il suono di band che già di per sé sono un’attualizzazione di quei suoni, perché sono figlie di una generazione diversa, quindi MGMT, M83, e via così. Anche negli elementi più afro del disco ci sono delle citazioni di band come i Local Natives, piuttosto che i Wild Beasts, e altri. Per quanto riguarda l’Italia siamo un po’ più in difficoltà, perché alla musica italiana mancano probabilmente degli esempi di abbinamenti poco ortodossi. Sicuramente la grande modernità del pop in ambito italiano resta quella dei dischi di Battiato o di Ivan Graziani, a cavallo tra fine ‘80 e inizio ‘90. Ma la loro influenza è stata più che altro nei testi, nel suono delle parole, magari la scelta di usare un metro meno narrativo e anche un po’ più surreale, un po’ più bizzarro.

Riferimenti alla cultura pop molto spiccati nei testi: gli zombie di Thriller, la ketamina, Goodbye Lenin, una riga, lo Ied, la Cattolica, i social network, Obama, Photoshop. Noi qui a Roma abbiamo i Cani che fanno questo discorso, e poi lo Stato Sociale o il Managment del Dolore Post-Operatorio a seguire, cosa ne pensi?
Io penso che i Cani abbiano scritto i testi più incisivi e importanti del pop italiano recente. Pur non essendo un fan del progetto, perché musicalmente non mi piace, non mi emoziona, sono assolutamente stato affascinato dal loro cortocircuito, da loro modo di relazionarsi ai testi e all’attitudine comunicativa delle canzoni. Gli altri progetti che citi li vedo un po’ più derivativi. Il disco dei Cani è stato un riferimento, in particolare per prendere in considerazione la possibilità di dire cose forti partendo da quello che succede nel tuo quartiere, e non dai massimi sistemi, o da un retaggio cantautorale più alto. In questo senso mi è servito molto per riflettere. E credo che Roma abbia una tradizione narrativa che va in questa direzione. E infatti un altro degli autori che mi hanno influenzato nella stesura del disco è stato Francesco Pacifico (scrittore, ndr), che è anche amico di Nicolò dei Cani. C’è un elemento di continuità. E ci sono proprio delle canzoni, per esempio Forse Italia, che sono state pensate e scritte immaginando scenari romani.

E quindi quando dici nel comunicato: “Il resto lo stanno facendo persone di neanche trent’anni. Il loro stile, le loro lotte, i loro scazzi, le loro scopate, i loro tumblr, i loro vestiti, le loro foto, le loro vittorie, i loro suoni. Questo disco è per loro.” Tu ti stai riferendo proprio a questa generazione qui?
Sì, che è poi quella di cui facciamo parte anche noi trentenni. Però ripeto, l’unica velleità di questo disco era quella di non mettersi in cattedra a spiegare qualcosa, o a dire che il passato è mitico e che invece il presente è deprimente. È inevitabile poi che i protagonisti del panorama in cui viviamo noi, quelli che speriamo consumeranno la nostra musica, si collocano in quella generazione lì, in quegli status-symbol, e ci aiutano anche a capirli. Lo sento come un disco di grande apertura e di grande avvicinamento verso le persone.

Se dico Baustelle tu cosa mi dici?
Ti dico che ho incontrato Francesco Bianconi tre giorni fa e l’ho trovato molto dimagrito, però già siamo tutti magri di partenza (ride). Ti dico, come sono stati i Cani oggi, una lampadina che si è accesa per i testi, lo sono stati anche i Baustelle quattro anni fa quando è uscita “La Malavita”. Detto questo, poi ognuno è libero di percepire qualsiasi cosa. In questo disco non c’è, almeno volutamente, traccia di Baustelle. Hanno fatto parte di un’attitudine che è stata nostra fino a “I Moralisti”, ma che con questo disco abbiamo superato. Detto questo non dimentico che moltissime canzoni dei Baustelle parlano di giovani e di vite dei giovani, delle loro problematiche (anche troppo forse, anche in un modo troppo “clichéttoso”) e quindi fanno parte di un nostro background. Ma credo che il modo in cui io mi sono posto nei confronti della realtà sia molto distante da quello dei Baustelle. Francesco Bianconi ha una personalità e una visione del mondo e dell’umanità un po’ più distaccata dalla mia. In questo disco, in parte anche nato da un’esperienza fatta in Africa, mi sono veramente voluto mettere, se non sullo stesso piano, anche più in basso delle persone che mi circondano, infondermi, aprire molto la mia visuale, senza giudicare, senza insegnare niente. Nei Baustelle c’è sempre una sorta di “falce”, di sguardo un po’ contemplativo, distaccato, che a volte ho percepito come eccessivamente cattedratico.

I figli dei persiani, i figli dei precari: il brano Alì suona un po’ come un parallelo tra i giovani italiani e i giovani iraniani, da dove viene l’idea?
È venuta anche questa da un’osservazione, neanche molto approfondita, di situazioni che ho vissuto a Berlino. Mi hanno fatto riflettere su quanto sia distante a volte l’attitudine di persone della stessa età, che vivono nella stessa città, con gli stessi status-symbol, le stesse abitudini, gli stessi gusti, essendo però figli di una tradizione e di una civiltà diversa. I figli degli iraniani di Berlino sono ragazzi che di giorno sono assolutamente osservanti della dimensione religiosa e unitaria della comunità a cui appartengono, poi di notte sono veramente trasgressivi, a dei livelli che noi giudicheremmo quasi perversi. Ma il loro è sempre un grande tributo alla voglia di vivere: dal sesso estremo, al rispettare i dogmi della propria comunità, c’è sempre una forma di amore per la vita. Mentre a volte nella nostra società, o comunque nelle esperienze che ho avuto io a Milano frequentando i locali o suonando, c’è questo disagio, da cui comunque traspare una debolezza, e non un grande amore o una grande passione per la vita, se non magari a volte anche un’indifferenza per la vita stessa. Ho voluto usare due istantanee per non puntare il dito, ma semplicemente per mettere a fianco due modi diversi e  di vivere la giovinezza nella nostra contemporaneità, in cui però il discrimine fosse un diverso amore per la vita… che evidentemente mi appartiene molto in questo momento!

Infatti nei brani ricorre spesso un discorso sulla felicità e sulla voglia di vivere, ed io ho pensato che tu parlassi delle nuove generazioni… visto che personalmente tra i miei coetanei trentenni non ne vedo molta di voglia di vivere, piuttosto a volte penso che siano pieni di occasioni mancate. Condividi?
Assolutamente, infatti c’è un sottinteso nel disco, ovvero una grande fiducia e aspettativa verso queste nuove generazioni di ventenni, soprattutto i nati dal ‘90 in poi. In loro vedo sempre più affacciarsi segnali incoraggianti. Anche banalmente in uno stile, nel modo di usare certi strumenti, comunicare, vedo più movimento, vedo meno muffa rispetto a quello che è sempre stata l’attitudine media italiana. Questo mi entusiasma, non lo nego: non è un entusiasmo da adulto, è un entusiasmo di una persona che ha avuto la fortuna di vivere in varie parte del mondo, e vede fermenti che iniziano ad attecchire in modo spontaneo. Anche negli arrangiamenti c’è un’urgenza di smuovere, non a caso abbiamo fatto un disco più ritmico che non melodico o stratificato

Chi ha lavorato alla produzione e agli arrangiamenti?
Come sempre Leziero Rescigno è il produttore dei nostri dischi. Io ho un’attitudine più da musicista, immagino le cose, poi lui le sa realizzare. Ci siamo anche scontrati, più che in passato. Abbiamo avuto bisogno di riascoltare certe cose per poi riprodurle bene, anche per lui è un disco con delle coordinate nuove. Cento giorni da oggi È comunque sempre figlio del nostro binomio, ovviamente con degli apporti a vario livello da parte dei fonici che l’hanno registrato o che hanno curato la post-produzione, e ovviamente degli altri musicisti che ci hanno suonato, soprattutto in alcuni brani.

La primavera araba: sembra che il parallelo tra la realtà Italiana e quello che accade dall’altra parte del mare ti abbia molto colpito. Ho capito che ti ha colpito la vitalità di questi eventi, dei giovani che sono stati il fulcro di quegli eventi. Tu nel testo dici: Toglimi i mostri cattivi / li riconosci dal cazzo in pelle speciale / fottono la tua città / sei sprecata in questura / sei troppo speciale. Parli di Milano? Chi sono i mostri?
Parlo dell’Italia del Partito delle Libertà, cioè parlo degli scenari che sono diventati per noi quotidiani, e che sono stati da noi accettati come una sorta di folklore. La “pelle speciale” è l’abuso di botulino, di plastica, sia metaforico che reale che è stato fatto da un’immensa porzione di italiani a cominciare dalle istituzioni e dai simboli della società italiana. Poi le cose sono cambiate per questioni di autodistruzione del sistema. Nel ritornello c’è un grido di aiuto e allo stesso tempo di ribellione, di non accettazione di questa sofisticazione totale e ostentata. Questo ritornello è stato molto evocato dall’attitudine e dalla voce della persona che l’ha cantato, che è Divi dei Ministri. Nella sua rabbia rappresenta bene i significati di questa canzone.

Parliamo della sezione mediatica e comunicativa di questo disco, per la quale hai scelto la collaborazione di Sterven Jonger. Chi è Sterven Jonger e perché l’hai scelto. Perché non gli uffici stampa italiani?
Sterven è stato un incontro fortuito e folgorante nel momento in cui probabilmente ero alla ricerca di scenari diversi, distanti, e di un punto di osservazione lontano dal mio paese, da me stesso e dalle cose che succedevano. Ho incontrato questo autore fantomatico e molto riservato che usa strumenti diversi a seconda del contesto in cui si trova, per dire la sua o far succedere delle cose. In Italia si è servito di una serie di figure, di artisti: un collettivo vero e proprio con un’attitudine molto bella, molto “figa”, che è più guerriglia che istituzione, e ci siamo trovati sul pezzo, con le stesse esigenze. Tant’è che lui ha dichiarato: “Gli Amor Fou avevano bisogno di una rivoluzione, io gliel’ho venduta”. Sterven rappresenta uno stile comunicativo moderno, contemporaneo, e non ancora del tutto affermato in Italia, che è appunto quello dei tumblr, delle gif animate, e che ha calzato a pennello col nostro desiderio di fare qualcosa che fosse molto immediato, e immediatamente utilizzabile, “indomabile”. Se avessimo pubblicato dei comunicati stampa o fatto un sito saremmo rimasti fermi dietro quella famosa barriera, quella cattedra di cui si parlava prima. Raccontare un disco senza nemmeno dire che stai raccontando un disco, attraverso immagini che immediatamente possono venire re-bloggate in tutto il mondo da persone che gli danno un significato è di per sé molto stimolante. È chiaro che uno può anche non sapere che dietro a quelle immagini c’è un disco od un gruppo, ma comunque qualcosa di quel messaggio arriva. E in questo momento mi va bene che arrivi attraverso una gif di un poliziotto e di un manifestante colorati, piuttosto che con una canzone o con una frase che io scrivo.

Ho notato una piccola polemica con un giornalista musicale in cui dicevi che questo disco piacerà più al pubblico che non alla critica. Secondo te, oggi che i dischi sono più o meno a disposizione di tutti nello stesso momento, in modo che tutti immediatamente se ne possano fare un’idea personale, ha ancora senso la critica musicale? E soprattutto, ha senso farla sulle webzine o è solo una riproposizione con mezzi nuovi di vecchi schemi di pensiero?
Indubbiamente internet, e l’apertura del contributo a tutti, ha sicuramente un po’ indebolito o relativizzato il peso reale che ha una recensione: questo è interessante e utile nel momento in cui ha portato anche un po’ a ridimensionare i limiti di una certa critica, che secondo me sono da una parte la mancanza da parte dei critici di competenze strette di come “si fa” la musica, e dall’altra la mancanza di curiosità e di aggiornamento.
Ero certo che, avendo noi creato un grosso seguito e una grande autorevolezza rispetto ad una critica legata al cantautorato, proponendo formule nuove avremmo messo in difficoltà le persone che ne andavano a parlare. È evidente che se oggi un giornale deve assegnare gli Amor Fou a qualcuno, non li assegna a quello che scrive la recensione di Caribou, ma a chi si occupa dei Non Voglio che Clara. Allo stesso tempo sono stupito che la maggior parte delle persone sia stata contagiata, e quindi non sia stata troppo a riflettere: ho letto cose interessanti scritte da utenti e ho letto cose interessanti scritte da giornalisti. Io credo nella critica di qualità, io credo che chi fa un percorso può arrivare a fare critica di qualità. Chi invece inizia a scrivere e nel frattempo ragiona, penso si prenda la responsabilità di scrivere cose poco attendibili, tutto lì.

La mia domanda era anche rivolta a farti dare anche una ricetta. Alla fine la critica musicale si fa sempre di più sulle webzine, ma si fa sempre con gli schemi che sono gli stessi della critica cartacea.
Il problema che vedo è che molto spesso, quando poi parlo con i giornalisti, mi sembrano persone molto distanti dalla musica, poco curiose, poco attente. Non vedo una dimensione in cui la musica è un elemento che pervade la vita. C’è quasi più un atteggiamento da Entomolgi, da Scienziati, un po’ distaccata, e questo è stato sicuramente superato dalla cultura del web che è sicuramente più emotiva. In questo sono sicuramente solidale con il fatto che si possa scrivere di musica in modo interessante e fuori dai canoni classici. Penso che il problema sia più che altro la sovra-produzione di cose che poi confondono e fanno si che ci sia un po’ di straniamento. Anche quando faccio i dischi mi chiedo sempre in primis se c’è la necessità di un altro disco, quindi… Credo che in questo momento ci siano anche delle tendenze, per cui magari dei progetti esordienti hanno un bonus di attenzione in più, anche a discapito della maturità del progetto o della qualità.

E come potrebbero innovarsi secondo te i siti musicali sul web per includere questa comunicazione più “emotiva” di cui parlavi?
Probabilmente con delle formule e taglio comunicativo diverso, nel senso che ogni piattaforma ha delle regole. Scrivere delle recensioni di 200 cartelle sul web ha poco senso, anche se le scrive il più grande critico musicale. Due giorni fa ho visto che un mio amico ha aperto un profilo Pinterest, e lo usa solo per postare delle recensioni di otto righe, ed è probabilmente un modo interessante  per dire le quattro cose essenziali su un disco che hai ascoltato cinque volte: magari le cose fighe le capirai tra sei mesi!
È ovvio che in un web sovraffollato è difficile dire quale sia il modo per parlare di musica in maniera interessante. Magari anche parlarne il meno possibile! O magari in un modo sintetico e aggiornato allo stesso tempo, oppure usare dei contenuti con un taglio diverso.
Una webzine che apprezzo molto, perché che si occupa di contenuti molto trasversali e poco documentati in Italia, soprattutto dal punto di vista elettronico è Dance Like Shaquille O’Neal (www.dlso.it). Pochi giorni fa mi ha chiesto di collaborare come columnist, ed io ho proposto di fare solo delle videointerviste agli artisti, prenderli in un contesto a loro più affine, non farli troppo ragionare… penso che possa essere una cosa. Penso che la chiave sia nell’utilizzare sempre di più tutti gli strumenti a disposizione.

Le gif animate sono opera di Sterven Jonger